La strategia del «subpresidente» Iván Duque rispetto al dialogo con il Comité del paro – perlomeno da quando il suo burattinaio Álvaro Uribe lo aveva rimproverato per la sua «scarsa fermezza» – era diventata fin troppa chiara: tirarla per le lunghe, logorare la controparte e confidare che i manifestanti prima o poi si stancassero di protestare. E soprattutto non negoziare nulla, per non permettere, ad appena un anno dalle presidenziali, che fosse il comitato a intascarsi i meriti delle riforme.

ERA AVVENUTO COSÌ, del resto, anche dopo la grande mobilitazione del 2019: grande disponibilità al dialogo a parole, molti incontri, zero risultati. Ma di ripetere lo stesso gioco il Comité del paro non aveva nessuna voglia e così, una volta capita l’antifona, dopo 12 lunghissime riunioni tra le parti terminate in un nulla di fatto, ha detto basta. Il dialogo, ha annunciato, riprenderà solo quando il governo si sarà deciso a firmare quell’accordo preliminare sulle garanzie per l’esercizio della protesta che era stato raggiunto già il 24 maggio e che poi era saltato, quando mancava solo il via libera del presidente, in seguito alla richiesta irrinunciabile del governo di mettere fine a tutti i blocchi stradali, malgrado un loro sensibile decremento deciso dai manifestanti come segno di buona volontà. Di più: il Comité del paro avrebbe dovuto addirittura considerarli da quel momento e per sempre una forma illegittima di protesta.

ALL’ANNUNCIO della sospensione unilaterale del dialogo, il governo ha finto sorpresa e sconcerto, ribadendo però di non avere nessuna intenzione di firmare l’accordo così come era stato concordato, cioè con i punti relativi al divieto dell’uso delle armi da fuoco e della presenza delle forze armate durante le proteste pacifiche e all’autonomia delle autorità locali nella gestione delle manifestazioni.

MA QUANDO IL COMITÉ del paro ha proposto di lasciare in stand by l’accordo preliminare e di passare direttamente a negoziare i punti del pacchetto di emergenza, il governo ha detto ancora una volta no, continuando tuttavia a far ricadere sui manifestanti la responsabilità del pesante impatto economico delle interruzioni della circolazione, quantificato da Fedesarrollo (Fondazione per l’educazione superiore e lo sviluppo) in un danno dai 4 ai 6,8 miliardi di dollari.

In attesa di resettare la strategia, magari decidendo di discutere il suo pacchetto di richieste non più con il governo, ma con sindaci e parlamentari, il Comité del paro ha intanto approfittato della visita in Colombia della Commissione interamericana per i diritti umani (Cidh) per chiederle di sollecitare Duque a firmare l’accordo del 24 maggio, a mettere immediatemente fine alla brutalità della polizia, ad applicare la sentenza della Corte suprema di giustizia sulla regolamentazione del diritto alla protesta sociale, a creare una commissione di indagine indipedente sugli oltre 3.780 atti di violenza commessi dalle forze dell’ordine (compresi 77 presunti omicidi) e a regolamentare la partecipazione dei colombiani «in diversi aspetti della vita nazionale».

«La nostra vittoria – ha commentato uno dei rappresentanti del Comité del paro, Oscar Gutierrez – è al di fuori del tavolo delle trattative: è nello scontento sociale espresso nelle piazze, una forza che cresce dal 2019 e che non smetterà di farlo». Una forza che neppure il comitato può contenere, come indica la creazione dell’Assemblea nazionale popolare, una nuova piattaforma di lotta che raccoglie quei settori popolari, comunitari e territoriali, come la Prima linea, che non si riconoscono nel Comité dal paro.