È stato un altro anno di sangue per la Colombia. Secondo i dati dell’ultimo rapporto di Indepaz, l’Istituto di studi per lo sviluppo e la pace, tra l’1 gennaio e il 24 dicembre sono stati commessi 92 massacri, con un bilancio di 326 vittime, in maggioranza indigeni e contadini.
Agghiacciante anche il numero di leader sociali assassinati: ben 168, tra cui 55 indigeni e 26 donne, per un totale di 1283 omicidi realizzati dall’Accordo di pace del 2016, di cui 885 sotto il governo di Iván Duque, il pupillo – o, secondo i più, la marionetta – del guerrafondaio per eccellenza, l’ex presidente Álvaro Uribe.
Nella Colombia che, dal 2016, avrebbe dovuto godere dei frutti della pace, è proseguita in maniera incessante anche la guerra, stavolta unilaterale, contro i combattenti che hanno deposto le armi: 48 gli ex guerriglieri uccisi, quasi 300 dalla firma degli accordi di pace.

Non sono neppure questi però i dati definitivi per il 2021: non era quasi ancora uscito il rapporto di Indepaz che già veniva commesso un nuovo massacro, il 93esimo dell’anno. A cadere, nella notte del 26 dicembre, sono stati tre contadini di una stessa famiglia, nel municipio di Sácama, nel dipartimento di Casanare.
È stato tuttavia, il 2021, anche un anno di lotta: quello della rivolta sociale – il paro nacional – esplosa il 28 aprile contro l’iniqua riforma tributaria presentata dal governo e prolungatasi almeno fino alla fine di luglio. Una rivolta senza precedenti durante la quale sono stati uccisi più di 80 civili, 27 dei quali sicuramente per mano delle forze dell’ordine, mentre quasi 1.700 sono state le persone ferite dalla polizia, dagli agenti dell’Esmad e da civili armati non identificati.

Ma se il Comité del paro ha infine pagato l’incapacità di contrastare la strategia di Duque di tirare per le lunghe i negoziati senza concedere nulla, mirando solo a logorare la controparte, la rivolta a cui hanno dato vita in particolare i giovani – disoccupati, impoveriti e senza accesso all’educazione gratuita – ha comunque scosso dalle fondamenta lo scenario politico colombiano.
Così, dopo quasi 20 anni di egemonia dell’estrema destra di Uribe, con la sua feroce opposizione al processo di pace e la sua ferrea volontà di porre fine al conflitto attraverso l’annientamento militare della guerriglia, il paro nacional ha mostrato in maniera inequivocabile come l’uribismo abbia perso consensi anche all’interno della classe media e persino tra i sostenitori del suo partito, il Centro Democrático, alcuni dei quali scesi in strada a gridare “Basta Uribe, basta Duque”.

E se già le elezioni amministrative del 2019 avevano rivelato perlomeno una stanchezza generalizzata nei confronti di corruzione e violenza, di poteri mafiosi, del modello narco-paramilitare rappresentato proprio dalla leadership di Uribe, il grande sconfitto delle elezioni, ben più promettente appare il panorama elettorale dell’anno che sta per aprirsi, con le elezioni legislative del 13 marzo e le presidenziali del 29maggio.
Tutti gli occhi sono puntati sul Pacto Histórico «Colombia Puede», una coalizione politica ed elettorale lanciata a febbraio e di cui fanno parte, tra molti altri, Gustavo Petro, Iván Cepeda e Piedad Córdoba. Ed è proprio il candidato presidenziale della coalizione, quel Petro che era stato sconfitto con onore nel 2018, il grande favorito alle presidenziali di maggio: secondo un recente sondaggio, l’ex sindaco di Bogotà avrebbe addirittura più del doppio dei consensi del suo rivale più prossimo, Sergio Fajardo (42% contro 19%). Lontanissimo il candidato uribista, Óscar Iván Zuluaga, solo quarto con il 12,7%.