Lo scrittore e critico Seamus Deane, tra le voci più influenti degli ultimi decenni nel panorama della letteratura irlandese, ha spesso sottolineato come la cultura nel suo paese abbia subito in modo particolarmente incisivo l’influsso dell’oralità, al punto che si potrebbero capire solo superficialmente i suoi esiti più fortunati degli ultimi due secoli se non si ricorresse al concetto di oral culture. Non a caso, se mai dovessimo rinvenire un minimo comune denominatore tra gli esponenti maggiori della produzione letteraria contemporanea che va da Shaw a Heaney, passando per Wilde, Yeats, Joyce, Beckett e Flann O’Brien, non potremmo non ricorrere proprio al fattore oralità, che ha fatto la fortuna dell’Irlanda, creando una netta contrapposizione con quella che per tanti anni fu la cultura d’occupazione, quella inglese, basata sulla rigidità dei percorsi narrativi interni alla letteratura scritta.
Brendan Behan, vera meteora delle lettere irlandesi a cavallo tra gli anni cinquanta e sessanta, riferendosi agli inglesi aveva ammonito, non senza una punta di biasimo: «ci hanno tolto la nostra terra, il nostro idioma, la nostra religione; ma non sono mai riusciti a mettere a freno la nostra lingua». Era infatti principalmente la facondia, stando all’opinione degli anglisti di qualche decade fa, a contraddistinguere l’esuberante produzione letteraria degli scrittori d’Irlanda. Non il genio, ma la libertà di discettare senza dover sottostare alle strettoie della scrittura; e così facendo, ottenere quella libertà perlomeno espressiva negata loro dal punto di vista politico. Un sentire, questo, che rinnegherebbe quanto persino James Joyce aveva suggerito nell’affermare di avere, con Finnegans Wake, «messo a letto» il linguaggio. In tutti i sensi: di averlo assopito, ma anche di averne risvegliato il potenziale latente.
Colm Tóibín, tra i più popolari e hollywoodiani scrittori irlandesi di oggi, dichiara invece di non provenire affatto da una cultura orale, ma di spuntare – così dice – dal silenzio. Parole che a prima vista attribuiremmo più facilmente a Beckett, e non a un autore di romanzi neo-dickensiani, per dirla alla BS Johnson – altra stella cadente delle letterature in lingua inglese del novecento. E infatti, con il suo nuovo romanzo Nora Webster (traduzione di Alberto Pezzotta, Bompiani, pp. 352, euro 19,00) Tóibín ci consegna un libro che, pur nella sua impeccabile architettura, strizza l’occhio più alla nobile tradizione del novel ottocentesco, che non alle ardite sperimentazioni dei suoi, stilisticamente più coraggiosi, connazionali.
Da alcuni critici considerato una sorta di seguito ideale di Brooklyn, fortunatissimo romanzo reso celebre da una recente riduzione cinematografica di John Crowley, Nora Webster pare in realtà condividere con l’altro libro soltanto uno dei setting: la cittadina rurale di Enniscorthy, da cui proviene Tóibín stesso. È un luogo che ora l’autore dipinge con colori meno spenti e grigi, quasi che voglia mettere in luce aspetti del suo paese tralasciati in passato.
A differenza di Storia della notte, ambientato in Argentina, di The Master, concentrato sulla figura di Henry James, o del Testamento di Mary, ispirato nientemeno che alle vicende evangeliche della madre di Cristo, Nora Webster sceglie un’ambientazione in tutto e per tutto irlandese, che permette all’autore di allontanarsi dai luoghidell’alterità, per lambire lidi a lui più familiari, e sponde che col silenzio hanno poco a che spartire. D’altro canto, il Tóibín scrittore, come anche il Tóibín professore di scrittura creativa da sempre spavaldamente scettico sulle teorie letterarie, è famoso per non essere un uomo di poche parole.
La protagonista del romanzo, il cui nome è forse un debito contratto da Ibsen o da Joyce, o magari derivato da quello stesso Sean O’Casey che diede voce alle donne del proletariato dublinese di inizio secolo – indimenticabile la sua Nora Clitheroe nell’Aratro e le stelle – è un misto tra un’eroina da romanzo vittoriano e una solida figura femminile pronta ad affermare, contro tutto e tutti, la sua capacità di emanciparsi da una società di strette vedute. E pronta soprattutto a far valere la sua personalità singolare senza mai piegare la testa: sul posto di lavoro, ma anche nel comportamento che adotta nei confronti di un religioso della stessa scuola in cui insegnava il marito prima di morire, e in cui al figlio minore capita di essere ingiustamente discriminato.
Nora è iscritta al sindacato; è una cantante, appassionata di musica classica, e madre lungimirante di quattro figli. Lo sfondo è costituito da quello che fu forse il periodo più tragico e buio del l’Irlanda moderna: gli anni dei tumulti a Belfast e Derry, dell’implacabile repressione inglese, del Bloody Sunday, delle case dei cattolici-repubblicani date alle fiamme dai protestanti-unionisti, e del rogo dell’ambasciata inglese a Dublino nel 1972.
Di fronte alle notizie sempre più allarmanti che provengono dalle sei contee a nord dell’isola ancora in mano britannica, Nora afferma «se abitassi al Nord, e qualcuno mi avesse bruciato la casa, eccome se vorrei delle armi»; e poi, sulla Domenica di Sangue: «se fossi la madre di uno dei ragazzi che sono stati uccisi, vorrei avere una pistola».
Nora è una vedova, il marito è morto per problemi di cuore, non in guerra, benché fosse anche lui un attivista politico, per quanto iscritto a gruppi paramilitari o extraparlamentari. Di uno di questi fa parte la figlia Aine, che contrappone la lotta anti-inglese in Ulster ai bisogni effettivi del proletariato delle ventisei contee o Repubblica d’Irlanda, che dir si voglia.
Tanto la prospettiva anti-britannica che quella socialista sono, in Irlanda, i poli principali di una dualità totalmente idiosincratica nello scenario del repubblicanesimo irlandese: nel romanzo vengono messi su uno stesso piano, e sorprendentemente viene riservato loro eguale diritto di cittadinanza.
Con questo suo ultimo libro Tóibín si iscrive nel solco della grande narrazione realista irlandese del Novecento, ammettendo di aver tratto ispirazione da John McGahern che diceva di voler «sempre raccontare la stessa storia». Vezzo tutto irlandese, questo, ripetuto e riconfermato nella narrazione «orale» delle maggiori voci letterarie che il paese abbia prodotto. Ma relegare il romanzo alla sfera del puro realismo è forse riduttivo. Esiste un momento, forse il più lirico del testo, in cui Nora vede in una sorta di allucinazione il marito defunto: anziché confortarla, l’apparizione induce in lei ulteriori angosce sulla sorte e il futuro del figlio minore. È un passaggio che sembrerebbe ammiccare a Strindberg. Del resto, Nora Webster è un testo teatrale per eccellenza, come altre opere di Tóibín, per esempio il Testamento di Mary.
Perlomeno nella prima parte, il romanzo sembra sfiorare la tragedia; e non a caso il cognome della protagonista richiama quello di uno dei maggiori drammaturghi dell’era elisabettiana. Ma gli echi tragici sfumano grazie alla capacità della protagonista di non sottostare alle forze opprimenti della società che la circonda. Nora, non sempre in grado di ricorrere al soccorso dell’ambiente familiare, è invece assolutamente lucida quando si tratta di instaurare rapporti sociali al di fuori della gretta curiosità e invadenza dei concittadini, che sperimenta dopo la morte del promettente marito.
Il pub, la musica, le trasferte a Dublino, dove la figlia studia all’università, fanno di questo romanzo non la storia di una piccola cittadina irlandese, ma una sorta di saga nazionale, in cui i problemi tipici dei contesti asfittici vengono superati nel nome di una ragione superiore: l’ambizione a travalicare i confini, l’aspirazione a comporre finalmente quello che per Tóibín potrebbe rivelarsi il romanzo in grado di fare della sua Irlanda il nostro universo.