L’idea che gli artisti abbiano una vita particolarmente ricca e avventurosa è destinata a rivelarsi, prima o poi, un sogno, l’illusorio conforto a un crescente senso di alienazione. Se ne accorse, esemplarmente, Wilhelm Meister, l’eroe del romanzo di Goethe, che lascia la casa paterna e l’esistenza borghese per dedicarsi all’arte teatrale, pensando che in quell’ambito la propria personalità possa svilupparsi in modo armonioso, senza sacrificarsi alla necessità del produrre. Ma proprio questo desiderio rivela in Wilhelm il dilettante, cui la grande arte resta preclusa.

Se, nel fiorire di biografiche leggende ottocentesche, le personalità degli artisti divengono oggetto di culto, spesso a scapito delle loro opere, al più tardi a fine secolo si diffonde l’idea che solo i più mediocri possano esibire un fascino personale e vivere un’intensa esistenza. I grandi artisti, secondo Oscar Wilde, «esistono solamente per quello che fanno», e per questo in genere «sono del tutto privi di interesse per quello che sono». Qualche anno più tardi Thomas Mann, ritraendo per la prima volta, nel Tonio Kröger, la figura di uno scrittore affermato, ribadiva in fondo la stessa idea: Tonio non era qualcuno che «lavorava per vivere, ma qualcuno che non vuole fare altro se non  lavorare, desideroso di essere preso in considerazione solo come un uomo che crea e produce, e per il resto si aggira grigio, poco appariscente, come un attore senza trucco che non è nulla fino a che non ha qualcosa da mettere in scena».

Sembra che Colm Tóibín abbia tenuto conto di simili considerazioni nel romanzo dedicato a Thomas Mann, Il Mago (traduzione di Giovanna Granato, Einaudi «Supercoralli», pp. 512, € 24,00). La lunga vita dello scrittore, che dalla nativa Lubecca trasloca in anni giovanili a Monaco di Baviera, poi è costretto all’esilio negli Stati Uniti e infine fa ritorno in Europa negli anni Cinquanta del Novecento, si offre a una avvincente narrazione, costellata di tragedie private e catastrofi storiche; ma nella dimensione quotidiana, l’uomo viene di continuo messo in ombra dalle figure che lo attorniano. Dalla madre, che rifulge avvolta da un’«aura straniera e fragile» nelle prime pagine del libro, durante le serate festanti a Lubecca; dai giovani bohémiens di Monaco, a cui il protagonista si avvicina timoroso, «con la consapevolezza di essere un timido provinciale». O, ancora, dalla moglie Katja, nelle «conversazioni argute e curiosamente sconclusionate» tra lei e il fratello Klaus Pringsheim, che al protagonista sembrano un «modo subdolo per ridere di lui». Poco cambia anche in seguito, quando si fanno sempre più ampi i riconoscimenti e infine quando Thomas Mann in esilio svolge la sua eroica lotta contro il nazismo. Accanto ai trionfi pubblici, il romanzo indugia spesso sulle titubanze del suo personaggio, nella dimensione più intima dell’eros o nella sfera politica, ponendole tra l’altro in contrasto con la spregiudicatezza che in entrambi i campi mostrano i figli Erika e Klaus. A fronte dell’esuberanza, dello spirito di questi e altri personaggi la figura del protagonista finisce spesso per risultare opaca e quasi inerte. Magari non proprio, come Flaubert, l’idiota di famiglia, ma certo per nulla al riparo da beffe e motteggi. Non soltanto i familiari, anche un’impiegata dell’ufficio immigrazione o un autista, nel corso di qualche breve battuta di dialogo, mostrano di non provare particolare riverenza verso il grande scrittore. In simili occasioni la moglie Katja cerca di «trattenere una risata», e a Thomas stesso altro non resta se non consolarsi con la provvidenziale assenza delle figlie: Erika, che avrebbe fatto di questi episodi «un cavallo di battaglia» nelle conversazioni con amici e parenti, e Monika, capace di ripetere «fino alla nausea» qualunque aneddoto «mettesse il padre in ridicolo».

L’indugiare di Colm Tóibín sulle piccole disavventure quotidiane del protagonista ha l’effetto di renderlo inaspettatamente simpatico e, al contempo, di lasciare apparire la sua arte narrativa come qualcosa di inafferrabile e «magico». Le opere maggiori di Thomas Mann vengono qui ovviamente ricordate, ma quasi sempre ci è concesso assistere solo a un momento aurorale, alle impressioni o ai frammenti di vita da cui presero spunto quei testi, non al tenace lavoro in grado di trasformare quelle idee in capolavori. Le porte dello studio di Mann restano per lo più chiuse: ai familiari era proibito disturbare l’autore al lavoro, e Tóibín sembra attenersi a questa norma, non cogliendolo mai mentre è intento a scrivere o a leggere, e lasciando fuori dalla narrazione le sue esperienze intellettuali, anche le più intense: Schopenhauer non viene mai menzionato, Nietzsche solo un paio di volte, in modo incidentale.

Proprio nella rinuncia a ritrarre il suo soggetto al lavoro,  e nel provare a ricostruire, in modo inevitabilmente discutibile, i suoi processi creativi, risiede uno dei pregi dell’operazione condotta da Tóibín (che già nel 2004, con Il Maestro, aveva omaggiato la figura di un grande predecessore, Henry James). La sua narrazione, che si presenta esplicitamente come «romanzo», si tiene a distanza dai problemi della scrittura biografica, rinunciando a quella pretesa oggettività dei fatti narrati dietro cui si nasconde, sempre e per forza di cose,  una soggettiva interpretazione, fenomeno che è stato oggetto di riflessione non solo da parte di teorici (da Kracauer a Löwenthal) ma anche da parte dello stesso Thomas Mann, come ha mostrato Luca Crescenzi nella sua edizione del Doctor Faustus, là dove vengono imitate le pratiche più tendenziose delle biografie d’artista.

Ciò non significa che l’opera di Mann non sia presente in questo volume. Al contrario: solo che la sovranità della forma romanzesca permette a Tóibín di ricomprenderla nel più fruttuoso dei modi, intessendo un gioco di rimandi entro cui il proprio stile si mescola con toni e motivi manniani. Negli interni del patriziato anseatico, nella visita al sanatorio svizzero dove Katja  si curò, nella casa californiana e infine sulle rive del Lago di Zurigo riecheggiano, spesso appena accennati, molti elementi dei romanzi di Thomas Mann. E a scapito di qualche banalità – per esempio dove il protagonista riflette su una gondola che gli sembra «concepita per trasportare bare anziché persone vive» – Tóibín riesce a sottoporre alcuni tipici motivi manniani a inattese variazioni, allestendo un gioco intertestuale che fa del romanzo, apparentemente centrato sulla vita intima di Thomas Mann, un intelligente omaggio alla sua opera.

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