È ormai accertata l’elevata capacità della criminalità organizzata di infiltrarsi nel tessuto economico e sociale, riuscendo a instaurare relazioni con la società civile. Essa si alimenta soprattutto di collusione e corruzione. In questo modo risultano intaccati il comportamento civico, la fiducia, le reti di relazione, cioè il capitale sociale di un territorio. Si instaura, insomma, un sistema di intrecci perverso tra società civile e società illegale che si autoalimenta e di cui è difficile valutare la complessiva portata.
Secondo le stime ufficiali dell’Istat, nel 2008 il valore prodotto nell’area del sommerso economico era tra un minimo di 255 miliardi e un massimo di 275, pari, rispettivamente al 16.3% e al 17,5% del Pil. Altre stime basate su medie dirette sono quelle fornite da Eurispes, che valuta l’economia criminale in circa l’11,4% del Pil per il 2007 e quelle prodotte da Confesercenti, che ne stima il valore economico in circa il 7% del Pil. Possiamo affermare che i costi delle attività delittuose sono rilevanti per i singoli, per il sistema produttivo e finanziario, per l’intera collettività, e che gli stessi si innalzano se il crimine è organizzato. Le estorsioni, ad esempio, oltre a sottrarre direttamente risorse agli imprenditori assoggettati al racket disincentivano gli investimenti. Inoltre, in una economia infiltrata dalla criminalità organizzata la concorrenza viene distolta in molti modi: per assurdo si può affermare che un commerciante vittima di racket può finire con il considerare il pizzo come il compenso per un servizio di protezione contro la concorrenza nel suo quartiere; il riciclaggio dell’economia legale di proventi criminali impone uno svantaggio competitivo alle imprese che non usufruiscono di questa fonte di risorse a basso costo; i legami corruttivi tra associazioni criminali e pubblica amministrazione condizionano la fornitura di beni e servizi pubblici.
Nel complesso possiamo sostenere che viene compromesso lo sviluppo economico ma anche sociale dei territori in cui le mafie si diffondono. In una parola viene compromessa la sicurezza del territorio. Per valutare la minaccia alla sicurezza, vanno altresì considerati anche i costi indiretti che i singoli o le imprese si trovano a sostenere per effetto della presenza delle mafie. Rispetto al passato, costellato da stragi e omicidi efferati, oggi la criminalità organizzata si insinua nelle istituzioni, nelle imprese e nel mercato del lavoro ottenendo un controllo del territorio assai più radicato e anche con il consenso sociale. Ciò ha determinato l’acquisizione di una larga fascia del mercato del lavoro, di quello produttivo (anche in funzione delle difficoltà di quelle che lavorano in concorrenza leale rispetto a quelle entrate nel circuito della ‘ndrangheta che invece hanno come unico fine il riciclaggio del denaro illecito) e quello dell’economia reale, ma anche un ramificato consenso sociale sempre più in crescita atteso che i cittadini e i lavoratori intravedono in queste forme l’unica possibilità di poter ottenere un lavoro e poter vivere la propria vita. Un fatto di estrema gravità che, se non arginato in tempo, corre il rischio di consegnare la società civile in mano alle organizzazioni mafiose.
Lo dico con la consapevolezza dell’esperienza vissuta sul campo allorquando le forze di polizia sono andate a sequestrare le imprese nelle quali la ‘ndrangheta e le mafie si erano introdotte. Partendo dall’affermazione latina “pecunia non olet”, i cittadini hanno contestato le forze dell’ordine, la magistratura e lo Stato perché in quel momento gli stavano togliendo l’unica possibilità di reddito della loro famiglia. Insomma, siamo correndo il rischio che i cittadini percepiscano lo Stato come l’anti-stato e l’anti-stato come l’unica organizzazione in grado di dare risposte concrete ai bisogni della gente.
* segretario generale Siulp