In tempi dominati dalla malignità di un virus, questa è una mostra che racconta di un virus benefico: il collezionismo. Negli spazi della vecchia sede Enel, ribattezzati XNL e rimessi a nuovo grazie all’intervento della Fondazione di Piacenza e di Vigevano, diciotto tra i maggiori collezionisti italiani hanno accettato la sfida proposta da Alberto Fiz: presentare una selezione delle rispettive raccolte mescolandosi alle altre secondo un disegno tracciato dal curatore. Ne è nata una mostra che nell’abbondanza strabordante delle opere che invadono tutti gli spazi possibili dà la rappresentazione plastica di cosa generi quel virus felice.
«Il collezionista, come un Don Giovanni, va incontro alla sua preda con il preciso scopo di conquistarla prima degli altri», scrive Fiz nell’introduzione. «La sua è un’azione compulsiva, per certo versi ossessiva, in alcuni casi addirittura bulimica». Sono raccolte che non seguono binari coerenti decifrabili, ma avanzano a balzi, saltando da un territorio all’altro in una logica che è soprattutto quella della soddisfazione personale, che va dal piacere di avere un’opera della quale ci si è invaghiti, al vanto di avere intercettato un talento in anticipo su tutti. Non a caso la mostra, al di là del contenuto disturbante di tante singole opere, prende a tratti quasi un andamento giocoso, che lascia venire a galla la dimensione di divertimento e di sfida al buon senso che sottostà all’avventura collezionistica.
Quando i figli del notaio Paolo Consolandi pensarono di fargli una sorpresa regalandogli un’opera di Pascale Martin Tayou, ebbero una reazione infastidita, perché gli avevano tolto il piacere della scelta e dell’acquisto. Consolandi è stata figura di riferimento per questo nuovo collezionismo: ha coperto cinquant’anni di storia dell’arte, con il criterio di intercettare quello che riteneva più attuale. Comperava da galleristi, tolto il caso di Fontana con il quale aveva un rapporto diretto. A Piacenza è esposto un esito sorprendente di questa familiarità. Una volta infatti l’artista gli aveva chiesto di acquistare l’opera del suo giovane assistente, Hisachika Takadashi, una tela con motivo di fiori. Di fronte alla titubanza di Consolandi, Fontana aggiunse un taglio alla tela, costringendolo così a comperarla perché a quel punto l’opera era anche sua, anche se i soldi andarono tutti all’artista giapponese.
Il notaio milanese è stato anche una guida per altri collezionisti della generazione successiva, che lo accompagnavano nei viaggi esplorativi, tra gallerie e studi d’artista. Tra loro c’è Claudio Palmigiano, presente in mostra con opere della raccolta costruita con la moglie Maria Grazia Longoni. La relazione tra maestro e «seguace» è consacrata dal gioco a cui si sottoposero alla Frieze Art Fair di Londra nel 2006: si fecero fare ciascuno un ritratto dai due fratelli Chapman, Consolandi da Dinos e Palmigiano da Jake. Pleasure and Profit: a piece of site specific performance based on body art è il titolo delle due tele, un titolo che restituisce pienamente la dimensione di complicità che tante volte si crea tra artista e collezionista. Non si può concludere il discorso su Consolandi senza citare due gioielli arrivati in mostra dalla sua collezione, come Ordine disordine, ricamo su tessuto di Alighiero Boetti del 1979, e Senza titolo di Gino De Dominicis, opera su compensato del 1986. Il primo sembra il sismografo di un’anima che accosta il cuore dell’universo; il secondo è una proiezione di anime agitate e inquiete che si accavallano sotto un cielo di stelle e di tenebra.
Laura Mattioli, invece, ha ereditato la passione del collezionismo dal padre Gianni, di cui in catalogo racconta tutta la straordinaria e anche dolorosa avventura (il catalogo, Silvana, è arricchito dalle interviste ai collezionisti). Il vero demiurgo fu per lei però Giuseppe Panza di Biumo, con il quale aveva cominciato a frequentare gli Stati Uniti e a comperare le prime opere, anche se poi ammette di aver preso a frequentare artisti estranei al suo gusto. Panza non c’è tra i collezionisti in mostra: del resto la sua filosofia collezionistica, così rigorosamente aderente a un dettato estetico e spirituale, sarebbe risultata dissonante in una rassegna come questa, che invece celebra la libertà di zigzagare nelle scelte, caratteristica del collezionismo più recente.
È la strada imboccata da Patrizia Sandretto Rebaudengo, che rivendica la scelta di svincolarsi da tutti i criteri rigidi: «Mi rivolgo senza distinzione agli artisti di ogni parte del mondo, superando confini, limiti disciplinari come quelli geopolitici». Tra le sue opere possiamo così trovare l’installazione, con la parata di utensili agricoli, di un artista nato nelle Samoa, Richard Wentworth, come pure Blood Stone di Anish Kapoor, massi di pietra calcarea resi fragili da due fori che li svuotano (sistemati ai piedi dello scalone: dal punto di vista allestitivo una delle soluzioni più felici della mostra).
Il collezionista del nuovo millennio non ha una visione possessiva e privatistica del proprio patrimonio. Anzi ambisce ad avere un impatto sociale, seguendo i percorsi più diversi, come punto d’approdo del proprio percorso. «È importante che le opere siano in mezzo alla gente», dice Mauro De Iorio, collezionista trentino, un patrimonio di circa 500 opere, che ha disseminato in parte nei centri medici che ha fondato, in parte in spazi visitabili dal pubblico a Trento e presto anche a Verona. Giorgio Fasol, veneto, anche lui come De Iorio sostenitore della nuova pittura, ha scelto di stipulare un contratto di comodato con l’Università di Verona destinando ottanta opere della sua collezione. «Gli studenti sono protagonisti del nostro accordo. Ogni opera sarà adottata da uno di loro, che dovrà preoccuparsi di promuoverla, spiegarla e anche occuparsi della sua salvaguardia». Giuliano Gori, il grande collezionista di Fattoria di Celle, alle porte di Pistoia, invece rivendica con orgoglio il fatto di aver messo all’opera sette artisti internazionali (tra i quali David Tremlett e Daniel Buren) per rendere unico il padiglione di emodialisi della città toscana.
Vitalità, passione e anche sfrontatezza sono alla fine le cifre che emergono da questa mostra per la quale spavaldamente è stato scelto come titolo La rivoluzione siamo noi. Ne abbiamo riferito anche se attualmente la mostra è chiusa per le ragioni che ben conosciamo. C’è da augurarsi che il termine del 25 maggio possa essere prorogato: sarebbe anche un’occasione per riscoprire la contigua Galleria Ricci Oddi (quella del Klimt ritrovato) che accoglie la sezione dei monocromi e la spettacolare installazione di Mike Nelson, Monumental sculpture to publyck mourning, che suona come un non previsto omaggio al dolore sofferto dalla città.