Nel 1943, settantacinque anni fa, a Roma era un’alba piovosa. Era sabato e c’era la distribuzione delle sigarette – non si trovavano in tempo di guerra – per questo qualcuno era uscito presto per mettersi in fila dal tabaccaio. Nelle vie della città, di tutta la città, camion tedeschi si muovevano indisturbati. Arrivati presso alcune abitazioni, i soldati entravano e consegnavano un biglietto: adesso ha il colore giallo della carta vecchia, eppure quando lo si vede – esposto per esempio al museo ebraico a Roma – fa venire i brividi.

POCHI PUNTI SCRITTI in un italiano essenziale: «1) Insieme alla vostra famiglia e con gli altri ebrei appartenenti alla vostra casa sarete trasferiti». Seguivano altre istruzioni: portare con sé denaro, gioielli, cibo, documenti. Poi il punto cinque, la beffa: «Ammalati, anche casi gravissimi, non possono per nessun motivo rimanere indietro. Infermeria si trova nel campo».
Non sapevano dove li avrebbero portati né cosa sarebbe successo: degli ebrei catturati quel giorno 1022 finirono ad Auschwitz. Alla fine della guerra sarebbero tornati in 16. A settantacinque anni di distanza fa ancora riflettere, almeno alcuni, e le iniziative sono molte. Oggi alla Camera dei Deputati e poi alla Festa del Cinema di Roma sarà presentato il documentario La razzia – Roma, 16 ottobre 1943 diretto da Ruggero Gabbai e scritto da Marcello Pezzetti e Liliana Picciotto.

IERI SERA UNA CAMMINATA silenziosa ha percorso le vie del vecchio quartiere ebraico e, nel pomeriggio, si è tenuta una cerimonia in uno dei luoghi simbolo della deportazione del 16 ottobre: il grande cortile del Collegio Militare a Piazza della Rovere, in pieno centro città. È lì che vennero condotti i razziati: un luogo che fino allo scorso anno era stato dimenticato dalle celebrazioni senza però essere scomparso dalla memoria degli ebrei romani. «Il Collegio militare – spiega Amedeo Osti Guerrazzi, collaboratore scientifico della Fondazione Museo della Shoah di Roma – ha svolto un ruolo fondamentale perché gli ebrei vi rimasero prigionieri fino alla mattina del 18 ottobre. Ma, e questo non lo si ricorda volentieri, è anche un luogo di vergogna: in quei giorni nessuno ha cercato di fare qualcosa per le persone catturate. Chi si salvò furono solo i convertiti al cattolicesimo, coloro che vennero catturati per errore o le coppie così dette miste. Gli altri rimasero nelle mani dei nazisti, senza alcun tentativo da parte di nessuno di liberarli».

MA QUAL È IL RUOLO dei luoghi della memoria nell’identità di una città? «Sono assolutamente fondamentali. Noi ricordiamo la deportazione del 16 ottobre come ’la razzia del ghetto’ ma dobbiamo fare attenzione alle parole: ghetto significa un luogo chiuso, che non fa parte della città, la razzia invece si è svolta in tutta Roma, ben oltre i confini dell’antico quartiere ebraico. Quindi ricordare la deportazione usando l’espressione ’la razzia del ghetto’ è come cancellare il fatto che tutta la città ha assistito e in questo modo assolverla dal non aver reagito: perché tutta la città fu indifferente. È anche con le parole che si agisce la cancellazione della memoria: è come se Roma, chiudendo l’episodio nell’ex ghetto, abbia voluto rimuovere l’avvenimento stesso. Come se, in quanto italiani non ebrei, la razzia non ci riguardi».
Eppure ci furono anche storie di solidarietà. «Certo, il pericolo della rimozione è proprio questo: volendo cancellare ciò che è successo di brutto si finisce col dimenticare anche ciò che di straordinariamente positivo è avvenuto».
Il rischio di non esercitare una memoria consapevole rende uguali pure le scelte: sia di chi si adoperò per la salvezza che di coloro che aiutarono la razzia, sia dei Giusti che dei delatori. E azzera il valore della responsabilità. «Ci sono stati alcuni conventi che hanno accolto gli ebrei in fuga mentre alcuni si sono salvati semplicemente salendo sui tram, rimanendovi per ore, se non per giorni, coperti dai tramvieri che avevano capito benissimo ciò che stava succedendo e che hanno dato una prova straordinaria di solidarietà».

A ROMA OGNI SINGOLA famiglia conserva memoria di quel giorno. Chi si salvò lo dovette a volte al caso, altre alle conoscenze: qualcuno in convento, qualcuno al bordello. Alcuni vicini di casa fecero la spia, altri aprirono la porta e aiutarono la fuga. Gli ebrei del 16 ottobre del ’43 dopo due giorni vennero condotti alla stazione Tiburtina e partirono verso nord. «Io tanti anni fa – racconta ancora Osti Guerrazzi – ho parlato con il ’frenatore’ del treno del 18 ottobre e l’unica cosa che mi ha saputo dire è stata: ’Che ci potevo fare? C’erano i tedeschi’. Me lo disse prima ancora che avessi modo di chiedergli altro: chissà quanto ci ha pensato, visto che erano già passati tanti anni».
Allora, infatti, «c’erano i tedeschi». «Oggi – ha affermato uno dei familiari dei deportati del 16 ottobre alla cerimonia al Collegio militare – non è più tempo di lutto, ma di ricordo, commemorazione e, soprattutto, di riflessione. Io credo, e mi sento di farlo, di poter chiedere e pretendere da tutti voi, qui presenti, proprio perché qui presenti, un impegno. Un impegno ad agire, a fare tutto ciò che potete, in futuro, nel quadro delle vostre possibilità, delle vostre attività e delle vostre responsabilità, in modo che simili abbandoni, come quello dei giorni al Collegio militare, non avvengano mai più».