Il viaggio dell’immondizia romana continua ad essere complicato. L’emergenza rifiuti della Capitale è un’anomala ordinarietà: più di 2700 tonnellate di rifiuti partono ogni giorno dai quattro Tmb (trattamento meccanico biologico) romani per finire negli inceneritori e negli impianti di trattamento in giro per l’Italia e all’estero. Fino a un anno e mezzo fa, le balle di combustibile da rifiuti (Cdr) venivano bruciate fuori dal grande raccordo anulare, a Colleferro.
Da un decennio a questa parte le due ciminiere della cittadina a Sud di Roma, hanno assicurato lo smaltimento di gran parte dei rifiuti indifferenziati.

Gli inceneritori di Colleferro sono gestiti da una società regionale, LazioAmbiente tramite due partecipate: MobilService, interamente della Regione e da E.P. Sistemi, controllata per il 60% da LazioAmbiente e per il 40% dalla municipalizzata Ama. Gli impianti, attualmente spenti perché in manutenzione, sono stati scelti dalla Regione Lazio per essere ammodernati e riattivati entro i primi mesi del 2018.

Questo disegno, unito al decreto Sblocca Italia, apre la strada al business della monnezza e condanna Colleferro a mantenere attive le strutture.

Uno scenario, diventato impraticabile da quando, la cittadinanza, i movimenti ambientalisti e il Comune hanno alzato il livello del conflitto con un presidio permanente, grandi manifestazioni di piazza, serrata dei negozi, ricorsi al Tar, osservazioni in Conferenza dei Servizi ed esposti alla Procura.

I drappi alle finestre e gli striscioni sui muri della città hanno queste parole d’ordine: «Colleferro non dorme più», «Basta inceneritori». Parole d’ordine che si stanno concretizzando con le azioni di protesta del movimento Rifiutiamoli e del sindaco Pierluigi Sanna (a capo di una giunta di centro sinistra), che ha deciso di trasferire il suo ufficio vicino le due ciminiere.

Nel quartiere Scalo – a ridosso della strada che conduce agli impianti – la popolazione sta impedendo l’arrivo dei camion contenenti il materiale necessario alla riaccensione, picchettando la zona giorno e notte. A inizio dicembre, infatti un trasporto eccezionale è stato bloccato da più di duecento persone e dal primo cittadino che si è sdraiato a pochi centimetri dalla motrice. Un’azione determinata che non ha consentito margini di trattativa e che ha costretto il camion a fare retromarcia. La dirigenza degli impianti è stata indotta a fermare l’invio degli altri carichi eccezionali, escludendo così la possibilità di accendere gli inceneritori a gennaio.

Colleferro non vuole altri venti anni di inceneritori, la popolazione ha preso consapevolezza dei danni subìti: da quando i due impianti sono attivi, nella zona c’è stato un aumento del 79 % di ricoveri ospedalieri per malattie respiratorie. A sancirlo non sono gli ambientalisti ma la letteratura scientifica, come lo studio Eras curato dal dipartimento di epidemiologia del Lazio.

Le due ciminiere sono ancora oggetto di un processo penale per traffico illecito di rifiuti. Un processo, iniziato nel 2009 dopo il sequestro delle strutture da parte dei Noe. Secondo gli inquirenti a Colleferro veniva bruciato di tutto: carcasse di animali, materassi, batterie e copertoni. Materiali irregolari, provenienti dal Tmb Salario di Ama, bruciati grazie a falsi certificati che ne attestavano la conformità alle leggi.

Un territorio sistematicamente parte lesa, identificato da sempre come soluzione al problema dei rifiuti capitolini e vittima di una mattanza ambientale causata dalle grandi industrie degli anni sessanta.
Nella città, aziende chimiche come la Caffaro hanno lasciato un’eredità pesante fatta di fusti tossici, interrati vicino le sponde del fiume Sacco, avvelenando una valle intera con pesticidi tutt’ora presenti nella terra, nei suoi prodotti e nel sangue degli abitanti.

Per Colleferro, fermare gli inceneritori significa dimostrare di non essere più «terra di sacrifici».