John Kerry sarà ricordato come il segretario di Stato più sconfessato di sempre. Quando a smentirlo non ci pensano i presunti alleati – come il premier israeliano Netanyahu che lo ha tenuto sulla graticola del finto processo di pace per un anno – ci pensa da solo. La Siria ne è esempio lampante. Fino a dieci giorni fa l’errante Kerry da Riyadh parlava ancora di «pressione militare su Assad» e lo scorso fine settimana prometteva 70 milioni di aiuti alle opposizioni moderate per far cadere il presidente.

Fino al 15 marzo, domenica, quarto anniversario dell’inizio della guerra civile: Kerry ha capitolato. Con lui capitola la strategia mediorientale del presidente Obama, il castello di carte e alleanze infruttuose e dispendiose messo in piedi da chi sperava di sganciare gli Stati Uniti dai conflitti della regione.

In un’intervista alla Cbs, il segretario è stato costretto ad aprire ad Assad, dipinto negli ultimi 4 anni come dittatore sanguinario, problema e non soluzione, appassionato utilizzatore dei gas per sterminare il suo stesso popolo. Ma con l’Isis alle porte di Damasco – come ha detto venerdì il direttore della Cia Brennan – Assad fa meno paura. Anzi, sedersi con lui al tavolo del dialogo può essere l’unica via di fuga.

«Alla fine dovremo negoziare – ha ammesso Kerry – Siamo sempre stati disponibili a negoziare nel contesto di Ginevra I». Una mezza verità: la fallimentare conferenza di pace aperta dopo il tentato attacco dell’autunno 2013 alla Siria fu frutto della negoziazione russa e gli Usa, insieme alle opposizioni siriane alleate, contribuì a farla collassare ponendo come pre-condizione la testa del presidente. In mezzo ci sono stati 400 milioni di dollari di aiuti all’Esercito Libero e a gruppi minori di opposizione che dal 2011 ad oggi hanno perso talmente tanto terreno che in alcuni casi hanno preferito sventolare bandiera bianca.

Un fallimento dopo l’altro. Per porre una pezza e ridurre l’eccessiva influenza russa – Mosca ha svolto un ruolo cruciale per impedire i raid Usa prima e poi per costringere la Coalizione Nazionale a dialogare – oggi Washington vuole discutere con Assad. Troppo tardi? Il paese è al collasso. I morti hanno superato le 220mila unità, i rifugiati sfiorano i 4 milioni. Due terzi della Siria non sono più sotto il diretto controllo del governo: la macchina statale è ridotta in macerie, l’economia è a pezzi (danni per 200 miliardi di dollari, disoccupazione al 57% contro il 15% del 2011, l’80% della popolazione che vive sotto la soglia di povertà), il sistema amministrativo è assente in gran parte del territorio dove a dettare legge sono lo Stato Islamico (da Raqqa al confine con l’Iraq) e al Nusra (a nord ovest e a sud, al confine con Israele).

Dietro l’attuale situazione stanno le politiche occidentali. Washington non ha solo sostenuto gruppi ormai inefficaci, ma ha indirettamente consentito al califfato di espandersi contribuendo alla demolizione dello Stato siriano e alla crescita anormale dei gruppi islamisti, finanziati dagli alleati del Golfo.

Resta da chiedersi perché la Casa Bianca ceda proprio ora. Al di là delle posizioni della Cia e della decisione delle stesse opposizioni siriane a negoziare, la ragione è l’Iran. Teheran ha lavorato bene nel rafforzamento dell’asse sciita – Siria-Iran-Hezbollah – infilandoci dentro la rinnovata fedeltà di Baghdad. Tikrit è ad un passo dalla liberazione grazie alla gestione militare iraniana, senza che Washington prendesse parte all’operazione. E se in Iraq la cooperazione indiretta con l’Iran è un dato di fatto, ora è tempo di dialogare con gli Ayatollah anche in Siria. È quasi certa la presenza di Teheran alla nuova tavola rotonda proposta dalla Russia per aprile.

«Il conflitto in Siria non è una guerra civile, fatta dai siriani. È una guerra per procura nella quale gli interessi internazionali hanno distrutto la speranza di uno Stato democratico – scriveva ieri su Al Jazeera il giornalista al-Masri – L’Iran e Hezbollah contro gli Usa e il Golfo per chi si garantirà l’influenza su Siria, Libano, Yemen; la Russia contro gli Usa; la Turchia contro i kurdi».

Dopo all’apertura di Kerry sono giunte le prime reazioni. Assad ha detto di essere in attesa di «azioni e non solo di dichiarazioni e parole» da parte Usa, mentre campanelli d’allarme suonavano in Turchia e nel Golfo. Il ministro degli Esteri turco Cavusoglu ha ripetuto che «Assad è la ragione di tutti i problemi», mentre la Coalizione tornava a smentire se stessa, sottolineando la necessità di «far cadere il regime e tutti gli ufficiali responsabili di crimini contro il popolo siriano».

Alla fine anche il Dipartimento di Stato si è sconfessato: la portavoce Harf ha detto che Kerry non stava parlando di Assad, ma del governo siriano in generale. La credibilità Usa cade a picco.