L’ex ministro delle finanze filo-remain Philip Hammond, inviso come la peste ai brexittieri al potere che lo considerano una quinta colona dell’Ue, ha attaccato il premier in carica Boris Johnson, accusandolo di sabotare deliberatamente la possibilità di un nuovo accordo con l’Ue che sventi quella British Exit senza accordo che il premier millanta di non temere punto.

UNA CRITICA perfettamente verace, articolata in un intervento sul Times di ieri in cui Hammond, l’ultimo rappresentante di quell’epoca beata e ormai così lontana in cui, con il laccio dell’austerity, il governo ultra-neoliberale di David Cameron strangolava i poveri facendogli pagare il fio dei ricchi che avevano causato la crisi del 2008, ha accusato Johnson di distruggere ogni chance di ottenere un nuovo accordo di uscita dall’Ue. Ha poi rincarato la dose ai microfoni di Bbc Radio 4, dicendo che un’uscita senza accordo sarebbe «tanto un tradimento del risultato referendario quanto il non uscire per nulla».

Il tutto puntualmente invelenendo l’attuale inquilino del dieci di Downing Street dal fluttuante crine color del grano. Che ha a sua volta accusato Hammond di «fare tutto il possibile» per sabotare la preparazione del paese all’esodo dall’Ue. Johnson ha poi rincarato la dose: facendo leva sulla variante insulare della solita, gretta retorica bellicistica/patriottarda – che vuole la terra del pragmatismo di mercato insidiata dal moloch euroburocratico – ha parlato di «collaborazionismo» fra i membri anti-uscitisti del parlamento britannico e la malefica assemblea di Bruxelles. «C’è una terribile sorta di collaborazione, per così dire, tra quelli che credono di poter bloccare Brexit in parlamento e i nostri amici europei», ha detto Johnson, che ha più volte reiterato di voler uscire dall’Unione Europea ad Halloween «costi quel che costi».

Si perché in quel dialogo fra sordi tra l’Unione Europea e la Gran Bretagna che appassionatamente ci tiene incollati alla sedia da ormai tre anni, pur di scongiurare la chance di un accordo continuano a susseguirsi i sussurri. Johnson, che è arrivato lì grazie alla piromania sovranista di meno di duecentomila iscritti al Partito conservatore, da bravo leader di destra non fa altro che soffiarci sopra, pur usandoci il garbo di non denudare la panza volitiva in mezzo a claque di maltatuati traspiranti come accade in una certa penisola.

Com’è noto, l’ex giornalista mendace – ex sindaco di Londra, ex ministro degli Esteri – è succeduto a Theresa May, rovinatasi la salute per negoziare un accordo con «i continentali» stroncato per ben tre volte da tutta Westminster.

LE COORTI E I MANIPOLI euroscettici che lo adorano tuonano ormai da sempre contro il backstop, dispositivo di sicurezza che manterrebbe in buona sostanza tutta la Gran Bretagna assai vicina all’Ue per un periodo indefinito. Dal canto suo, la puntina dell’Ue incespica da mesi nello stesso solco: quello è l’unico l’accordo possibile e non emendabile: il backstop non si discute, si subisce. Dunque il premier sa che la sua premiership potrebbe finire settimane dopo esser cominciata. E prepara nemmeno troppo nascostamente le truppe cammellate alla pugna elettorale. Nulla di ufficiale naturalmente, ma la sua posizione oltranzista a favore di un’uscita senza accordo il prossimo 31 ottobre – vista anche la maggioranza risibile di un seggio di cui gode in un parlamento prevalentemente filo-remain -, rende le elezioni anticipate soluzione assai plausibile, se non l’unica.

SCHERMAGLIE SIMILI sono il corollario della faida interna ai Tories, dove l’accorto pragmatismo dei neoliberali ha lasciato ormai campo aperto al delirio immaginifico dei neoimperialisti, che farneticano di «global Britain». Anche se, quando si tratta di Johnson, figuriamoci se si tratta d’ideologia: parliamo di uno che aveva scritto due discorsi, uno pro, l’altro contro Brexit, quando ancora poteva permettersi di guardare dove meglio tirasse il vento.