Da un mese e mezzo la scena si ripete puntuale all’inizio di ogni partita dei San Francisco 49ers. Dopo l’entrata in campo, le squadre si allineano a bordo campo per il canonico inno nazionale in piedi con la mano sul petto e egli occhi fissi alle stelle e strisce. Colin Kaeprnick però non è un tipico quarterback; di certo il regista dei San Francisco 49ers non ha l’aspetto tipico del giocatore di football americano, con quella buffa faccia vagamente levantina piantata sul metro e 93 di fisico bestiale e un «afro» alla Angela Davis. Di padre afro americano e madre bianca (che lo ha dato in adozione alla nascita), il 28enne numero sette, in squadra occupa il ruolo che fu di leggendari giocatori  come Joe Montana e Steve Young. Ma non è però tecnica che ne hanno fatto, negli ultimi mesi, forse l’atleta più rinomato d’America.
Dall’inizio del campionato Kaepernick rifiuta alzarsi in piedi per l’inno. Inizialmente mentre i compagni si mettevano sull’attenti lui è rimasto seduto in panchina, in seguito ha preso a genuflettersi a bordo campo. «Non mi sembra il caso di mostrare orgoglio per una bandiera di un paese che opprime i neri e la gente di colore» ha dichiarato, aggiungendo: «c’è una scia di cadaveri sulle nostre strade e i poliziotti assassini al massimo vengono messi in aspettativa».
LE ESECUZIONI
Le prime partite del campionato si sono giocate a settembre, i giorni in cui in South Carolina esplodeva la rabbia per la morte di Keith Lamont Scott, ucciso a Charleston ed un ennesimo video che documentava un esecuzione in diretta, quella di Terence Crutcher, ucciso dala polizia ad un posto di blocco in Oklahoma. «Quando quell’inno rappresenterà tutti i cittadini allo stesso modo, allora, e solo allora, sarò pronto ad onorarla», ha dichiarato Kaepernick. Alla sua sfida solitaria si sono via via aggiunti compagni di squadra, chi inginocchiandosi, chi salutando col pugno chiuso. E la protesta si è diffusa in altre squadre del campionato. I giocatori dei Seattle Seahawks hanno formato una simbolica catena di solidarietà. Gli Atlanta Falcons ed i New Orleans Saints hanno formato un cerchio a centrocampo. Si sono inginocchiate intere squadre del campionato femminile WNBA e lo ha fatto anche Megan Rapinoe della nazionale femminile di calcio affermando: «quella bandiera non rappresenta gli Americani gay».
LE REAZIONI
Ma il gesto di sfida di Kaepernick, oltretutto durante una campagna politica che ha sdoganato come mai prima pulsioni suprematiste, rappresenta per molti una atto blasfemo e le reazioni non sono fatte attendere. I social si sono riempiti di insulti e minacce di tifosi che hanno vomitato il loro disprezzo, invitando Kaepernick a «tornarsene in un paese del terzo mondo», il solito messaggio cifrato del razzismo. Il giocatore ha ricevuto minacce di morte e in rete sono diventati virali video della sua maglia bruciata, spesso per mano di bambini istruiti da un genitore infervorato: in un solo fotogramma è rappresentato questo triste autunno trumpista. Alcuni hanno azzardato un «traditore!». «Non vedo cosa ci sia di anti americano nel lottare per libertà e giustizia per tutti», ha replicato l’atleta. «Considero semmai patriottico pretendere che gli Stati Uniti rispettino i valori che dicono di esprimere».
IL PATRIOTTISMO USA
Il rituale patriottico è culturalmente radicato in questo paese a livelli impensabili in Europa, a partire da quando gli scolari delle elementari iniziano la giornata salutando la bandiera e giurando fedeltà. Lo sport è ugualmente intriso di nazionalismo e canti e mitopoiteica patriottica (spesso conditi di elogi a truppe e forze dell’ordine). Nel football con la sua iconografia e allegoria militarista molti sono inorriditi di fronte alla blasfemia. In una cittadina del Texas una squadra di ragazzi del liceo, i Beaumont Bulls, è stata sospesa dal campionato e l’allenatore licenziato dopo che avevano deciso di emulare il gesto di Kaepernick. Eppure la protesta continua ad allargarsi. Nel campionato NFL, segregato e off-limits ai neri fino agli anni 50, più di due terzi dei giocatori oggi sono di colore.
MUHAMMAD ALI 
Domenica scorsa i 49ers hanno giocato in trasferta contro i Buffalo Bills, territorio solidamente trumpista nel cuore della Rus Belt, (il Nord est) deindustrializzata. L’allenatore dei Bills, Rex Ryan è un noto sostenitore di Trump e molti tifosi dei Bills hanno atteso il pullman della squadra ospite vendendo magliette recanti il volto di Kaepernick al centro di un mirino. Ma a Buffalo è successo anche che un gruppo di manifestanti identificati come «tifosi Bills per Kaepernick» ha manifestato in suo favore. Durante la protesta dell’inno i trumpisti hanno fischiato e intonato cori di U-S-A, U-S-A…ma dagli spalti sono giunti anche molti applausi. Kaepernick intanto si è presentato indossando una maglia con l’effige di Muhammad Ali. «È un modo per rendergli omaggio», ha spiegato del pugile scomparso. «Lui ha combattuto una battaglia simile per i diritti della nostra gente. Il modo migliore per onorarlo è portare avanti la battaglia finché non raggiungeremo la meta». Non è stato casuale il riferimento al pugile, universalmente elogiato ai funerali dello scorso giugno ma altrettanto stroncato in vita per la sua obiezione di coscienza alla Guerra del Vietnam, il massimo atleta ad usare lo sport come piattaforma di protesta. L’esempio di Ali venne seguito alle olimpiadi del Messico da Tommie Smith e John Carlos col pugno alzato sul podio. Anche loro furono oggetto di un’ondata di veleno prima di venire (in parte) riabilitati.
Oggi la storia si ripete speculare, anche se ci sono differenze. Intervenuto all’inaugurazione del novo museo nazionale afro-americano, il mese scorso. Obama ha detto «questo luogo dimostra come possano convivere nel nostro paese diverse concezioni di storia, come possiamo accettare come patriottico anche il gesto di alzare al cielo un pugno col guanto nero». In questo senso la protesta di Kaepernick misura il percorso compiuto dal paese col presidente nero. Uno shift impercettibile ma profondo, difficile da percepire fuori dall’America, che sarà forse il vero lascito di Obama. Allo stesso tempo le violente reazioni contro Kaepernick dimostrano quanta sia la strada ancora da percorrere in un paese in cui l’esperienza di bianchi e neri sono ancora separate da un abisso.