COLETTE è una storia di formazione, un po’ come quelle dei supereroi. Diretta da Wash Westmoreland e prodotta dalla produttrice storica di Todd Haynes, grande pioniera del contemporaneo queer cinema, Christine Vachon, questa biografia giovanile della scrittrice francese lavora con libertà e intelligenza sul formato period. Niente odore di muffa, storicismo esasperato, accenti troppo affettati (nella versione originale, Colette parla inglese e scrive in francese, ma nessuno in sala urla all’affronto) – dialoghi, ritmo, costumi e i temi portanti del film hanno una sensibilità che parla al ventunesimo secolo (come tutte le produzioni in costume di Vachon) – la stessa qualità moderna che Sidonie-Gabrielle Colette portò nei salotti di Parigi. Meno una buona dose della sua trasgressione.

SCRITTO da Westmoreland, insieme a Richard Glazter (con cui aveva già collaborato nei film indie Still Alice e Quinceanera) e Rebecca Lenkiewicz, il film apre nel 1892, in Borgogna. Colette (Keira Knightley) ha diciannove anni, un gatto e due genitori aperti o squattrinati abbastanza da non opporsi alle attenzioni che lo scrittore di mezza età Henri Gautier-Villars, detto Willy (Dominic West) riserva alla figlia.

PIUTTOSTO precoce di suo, Colette intravede nei modi cosmopoliti di Willy e nella sua disponibilità al dibattito intellettuale con una teen ager il biglietto per una vita di arte e avventura lontano dalla provincia. E, per mettere le cose in chiaro, accelerando le tappe della corte di lui sul piano fisico, annuncia al futuro marito di essere piena padrona dei suoi desideri.
In breve, Willy e Colette fanno sensazione nei salotti letterari della capitale, alimentando la loro eccitante, costosa, vita notturna grazie ai lavori forzati di un gruppo di scribacchini che producono, tipo catena di montaggio, i popolarissimi libri di Willy. Quando la vena si inaridisce e i poveretti non bastano più a pagare i conti, Willy scrittura sul campo la giovane moglie – che ama veramente, e che lo ispira, anche se non esita a chiuderla in una stanza per obbligarla a scrivere. Colette trova la sua «voce» grazie a uno stato di virtuale prigionia – come prevedibile, sarà quella voce a liberarla. I romanzi che scrive, sotto forma dei diari di un’adolescente di provincia – Claudine – e che Willy fa passare per suoi, riscuotono infatti un successo enorme.

Claudine diventa l’idolo di una moltitudine di ragazze francesi che si riconoscono nelle sue emozioni e nel suo sguardo sul mondo. Nelle mani spregiudicate dell’avido Pigmalione Willy, e con il consenso divertito della consorte, Claudine diventa anche un brand da sfruttare a forza di saponette e merchandising di ogni genere. Un’eroina Marvel dell’epoca. Presto, insieme al successo, e al rapporto sempre più forte con la scrittura, per Colette cresce la disillusione nei confronti del marito, che la tradisce e che lei tradirà a sua volta, con la marchesa di Belbeuf, un’amante delle mise maschili che Colette stessa avrebbe adottato.

IL FILM di Westmoreland, articolato secondo un racconto lineare, funziona al suo meglio quando aderisce al modello del romanzo di formazione. Una volta che Colette è «libera», è come se il regista perdesse d’ interesse, e il film di brio. Se questo focus così preciso sul momento dell’emancipazione -ideale tra l’altro per l’era #Metoo (il film ha avuto la sua prima mondiale allo scorso Sundance 2018) – protegge Colette dalla critiche di chi avrebbe preferito un film piu coraggioso, provocante, sull’autrice di Gigi, quello stesso focus è anche il suo grosso limite.