Non di rado tra i francesisti di scuola romana il contatto con la letteratura italiana è molto accentuato, grazie alla memoria delle varie competenze di Cesare De Lollis, che della scuola fu il capostipite, e per la fisionomia dei due veri e propri fondatori, Pietro Paolo Trompeo e Giovanni Macchia. In particolare il contatto avviene quando si affaccia il nome di Stendhal, lo scrittore francese italianisant per eccellenza. E in questo caso, come naturale per la «scuola romana», il centro diventa il rapporto di Stendhal con Roma: una vera e propria tradizione che adesso trova un punto d’appoggio e di risonanza non solo, ma di rinnovamento, in Il mistero Stendhal Saggi, note, confronti del decano dei francesisti italiani, Massimo Colesanti (Edizioni di Storia e Letteratura, pp. XII-208, euro 28,00). Il rinnovamento si deve alla nuova vista su quelli che nel corso del tempo sono diventati veri e propri luoghi comuni, dunque da andare a rivedere e sfatare, per esempio «la “noia” di Stendhal a Roma» o «Sainte-Beuve esaltato dai belliani quale araldo della fama di Belli in Francia»; ma rinnovamento si può anche considerare il ripensamento dei rapporti fra Stendhal e buona parte della cultura romana da lui frequentata.
Con Stendhal Colesanti ha avuto una lunga vicinanza, che dura da almeno quaranta anni e che è stata affidata a vari volumi di saggi, tra i quali si ricorderanno Stendhal. La realtà e il ricordo, del 1966, e Stendhal. Le regole del gioco, del 1983 (il cui titolo attiva in ogni appassionato di cinema il ricordo del grande film di spirito stendhaliano di Jean Renoir); ora il titolo Il mistero Stendhal è scelto per omaggio a Sciascia, lo scrittore italiano che con più continuità si è riferito a Stendhal come maestro di stile, ma anche perché «affascinato e coinvolto dai grandi e piccoli ‘misteri’, veri o ironici, dei quali Stendhal si circonda»; misteri di varia umanità, se Trompeo – ricorda Colesanti – nel 1937 scriveva, con ironia e verità: «la storia dello stendhalismo è tutta piena di mancati interrogatori a vecchie signore che in gioventù avevano conosciuto o avevano potuto conoscere Stendhal».
La ventina di saggi dei quali il volume è composto si apre sugli squilli di tromba che inaugurano la Chartreuse, configurando l’incipit del romanzo-poema come una vera e propria ouverture; e si chiude con la constatazione che «la “fortuna” di Stendhal scrittore e personaggio non viene affatto rimessa in discussione o smentita dalla sua “sfortuna” editoriale, anzi ne viene come rafforzata e rilanciata. Il discorso così ampio e ramificato su di lui è sempre un continuo punto e a capo, pieno di riprese, di svolte, di ritorni per altre vie e in altre direzioni. Se si è avverato ed anche “allargato” il motto da lui fatto suo, To the happy few, continua a perpetuarsi anche l’esclamazione augurale e “vaticinante” che ripeteveno i primi stendhaliani entusiasti, e poi Valéry e Sciascia con essi: Stendhal for ever!».
Dentro il mistero Stendhal, enigmatico per buona parte è il rapporto con Roma, tanto da dover porre la domanda su come mai nel corso del tempo si sia dato tanto peso alle dichiarazioni nelle quali prevale un sentimento di noia e tanto poco peso al non certo minore numero di dichiarazioni dove Stendhal sostiene il contrario, in un atteggiamento non contraddittorio ma oscillante, e la cui oscillazione è dovuta ai diversi momenti della vita e ai diversi contesti dai quali i giudizi sono sollecitati. È vero, come ognun sa, che Milano fu la città italiana eletta da Stendhal al centro dei pensieri: «Arrigo Beyle milanese» fu la scritta in italiano che egli volle sulla tomba. Ma da tradizioni romane come la Befana o piazza Navona allagata egli fu attratto senza riserve; registrò divertito le libere interpretazioni per le due scritte latine su due statue di Ponte Sant’Angelo «Magna Mater – Grata filia» diventate «La madre magna e la figlia si gratta»; frequentò con passione i teatri e con curiosità i riti religiosi: tornandone annota, per ricordarsene, la benedizione «parfaitement vraie et émue de Grégoire XVI» il 30 marzo del 1834, domenica di Pasqua. La questione della noia a Roma «non meriterebbe tanta attenzione se Stendhal non avesse, a Roma, scritto, lavorato, creato alcuni dei suoi capolavori. E se a Roma, a personaggi romani, storici o moderni, o conosciuti a Roma, così come ad episodi della sua vita romana egli non si fosse ispirato. A Roma si annoiava, ammettiamo. Ma è una noia feconda, creativa», da lasciar concludere che «Roma, sotto questo aspetto essenziale per lui, gli è stata ad un alto livello di grande compenso e conforto, gli ha offerto modi e tempi per abbandonarsi al suo forte, connaturato e inesauribile impulso creativo». Ma non è solo così. A Roma Stendhal lavora con felicità, compra fa rilegare legge libri, frequenta biblioteche fa copiare manoscritti prende appunti: lascia tracce di Roma in Madame Berchu del Lucien Leuwen, «modellata sulla giunonica signora Ciabatta», come ricordò Trompeo; traccia nell’incipit dell’Henry Brulard «quell’apertura luminosa e felice sul panorama di Roma dall’alto del Gianicolo, da San Pietro in Montorio, la chiesa dove egli andava spesso, anche per cercarvi e ritrovarvi, inutilmente, la tomba di Beatrice Cenci». Certo, c’è un significato nel fatto che Roma appaia così tanto in opere per vario motivo incompiute e postume, ma ciò non toglie nulla alla loro portata e dice che Roma non tolse a Stendhal «il suo sogno di felicità».
Colesanti, lo si è accennato, riconsidera e rilegge quello che è diventato un episodio centrale per la fortuna di Belli. Di ritorno dal suo unico viaggio in Italia, sul battello che nel giugno 1839 muove dal porto di Civitavecchia per il porto di Marsiglia, Sainte-Beuve incontra Gogol, che gli parla di un grande poeta romano che scrive nel dialetto di Trastevere. Sainte-Beuve annota sul suo taccuino di viaggio: «Chose singuliere! un grand poète à Rome, un poète original!». Ma, si chiede Colesanti, «Chose singuliere!» si riferisce a Belli, come hanno inteso tutti, traducendo «Straordinario!», o non invece al fatto che nella Roma del 1839 «viva e componga sonetti stupendi un poeta simile»? Sainte-Beuve riporta quanto gli comunica Gogol, ma l’esclamazione è sua, «ed esprime pienamente il suo stupore per la rivelazione d’un fatto per lui insospettato, quasi impossibile, e non per le qualità di un poeta che non conosce e non conoscerà mai, ma per la sua stessa esistenza». A Sainte-Beuve Roma non era piaciuta, e ne fissò «un’immagine statica, mortuaria, di silenzio e solitudine» nella quale il suo stato fisico e mentale del momento ebbe una gran parte. Viaggiatore nullo, al viaggio a Roma si era preparato chiedendo consigli a una guida d’eccezione, Stendhal. Anche se non si sa quali furono, i consigli non andarono a bersaglio. Arrivato a Napoli, Sainte-Beuve si reimbarca per Civitavecchia: gli sembra, di lì andando verso Roma, di attraversare un deserto, «et voilà tout d’un coup la plus glorieuse del villes (le dôme de Saint-Pierre) apparaît»; pochi giorni dopo «si emoziona allo spettacolo del tramonto a Villa Adriana, in compagnia di Liszt e di Madame d’Agoult», però «tutte le altre brevi note non fanno che insistere su Roma città morta». Del resto, Villa Adriana, «révélation de Rome», sta a Tivoli. Che nella città morta circondata da un deserto potesse esserci un grande poeta aveva dunque dell’incredibile: «Chose singuliere!». La curiosità per Belli gli restò viva, ma non lo lesse mai.