La prima cosa importante intanto è che la Artchipel Orchestra crea legame, qualcosa di cui a Milano nel campo del jazz e dell’improvvisazione c’è così bisogno. Nel 2010 Antonio Ribatti, direttore dell’AH-UM Milano Jazz Festival, chiese a Ferdinando Faraò di pensare a qualcosa di speciale per l’edizione di quell’anno, e Faraò ebbe l’idea di mettere insieme una larga formazione.
Speciale è stato ancora di più il seguito, perché i musicisti coinvolti per lo più non avevano precedenti esperienze insieme, ma il collante si creò subito, tante isole- individui, background diversi – riunite in un arcipelago, da cui l’idea di continuare, e il nome dell’orchestra: e non solo la Artchipel prosegue, con all’attivo incisioni e parecchi concerti, ma è diventata un riferimento sulla scena milanese, una realtà che è riuscita ad accumulare un bel capitale di simpatia. Come si è visto giovedì sera, con tante isole della musica e del jazz milanese che componevano il pubblico che si è raccolto all’Orto Botanico per l’esibizione della Artchipel nell’ambito di «Il Ritmo delle Città»: di cui l’orchestra era già stata ospite nel 2012 e 2014. Occasione ghiotta, perché la Artchipel tempo fa aveva già presentato dal vivo a Milano il suo progetto dedicato ai Soft Machine (tradottosi anche in un cd), ma in questa occasione lo riproponeva con due illustri ospiti, il pianista Keith Tippett e la vocalist Julie Tippett – era già avvenuto solo un’altra volta, lo scorso anno a Fasano Jazz.

 
Faraò, autore di quasi tutti gli arrangiamenti, ha puntato sul periodo ’69-71 del cruciale gruppo rock-jazz, ai Soft Machine degli album Volume Two, Third e Fourth, brani firmati da Hugh Hopper, salvo Moon in June di Robert Wyatt. Con Keith Tippett, che più o meno negli stessi anni collaborava con i King Crimson, all’epoca avevano suonato diversi componenti dei Soft Machine, fra cui gli stessi Wyatt e Hopper, e il sassofonista Elton Dean.

 
La resa dei brani assicurata dagli arrangiamenti di Faraò e dalla sua attenta direzione sul palco è nitida: il suo rapporto con questo repertorio è «vissuto», deriva dalla sua personale biografia di fascinazione per la scuola di Canterbury sperimentata quando le novità che arrivavano da oltre Manica erano materia calda, attualità stretta e folgorante.

 
Un amore testimoniato proprio dal fatto che il materiale è rivisitato senza nessuna concessione ad una esteriorità che potrebbe essere facile, ma invece con un tatto sobriamente jazzistico, che se rende l’operazione gradita a chi continua ad avere i Soft Machine nel cuore, la rende godibilissima anche per il jazzofilo che non abbia particolare confidenza con gli originali. Semmai nelle prossime occasioni la Artchipel si potrebbe permettere un maggiore abbandono, sia nel senso di un sound per certi aspetti più pronunciato (il suono di basso e batteria, come anche della chitarra, era un po’ gracile), sia di un maggiore spazio a voci solistiche di valore che non mancano, come si è sentito – solo per citare qualcuno – con gli interventi del sax baritono di Massimo Falascone, del tenore di Germano Zenga, dell’alto di Alex Sabina, del trombone di Andrea Baronchelli, della viola di Paolo Botti.

 

 

Prima del bis, la Artchipel ha presentato un brano di Faraò dedicato alla compianta Lindsay Cooper, la grande suonatrice di fagotto e compositrice degli Hanry Cow: per la Artchipel e Faraò, che hanno già lavorato anche su musiche di Alan Gowen, Dave Stewart e Fred Frith, oltre che di Mike Westbrook, una rilettura del suo repertorio è il prossimo progetto, che verrà presentato in ottobre in concerti con la partecipazione di Chris Cutler alla batteria.