Alle 21.04 del 6 agosto 1926, la diciannovenne Gertrude Ederle toccò la spiaggia inglese di Kingsdown, diventando la prima donna a traversare La Manica a nuoto. Compì l’impresa in 14 ore e 34 minuti, ribassando di oltre due ore il primato detenuto dall’argentino Enrique Tiraboschi. Nata a New York da genitori tedeschi, Ederle aveva imparato a nuotare a nove anni e solo dai quindici cominciò ad allenarsi seriamente. Alle Olimpiadi parigine del 1924 vinse un oro nella staffetta veloce e due bronzi individuali. La sua fortuna era stata di far parte dell’Associazione Natatoria Femminile newyorkese, la stessa da cui sarebbe passata Esther Williams, la stella hollywodiana degli anni ’40.

 

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Gertrude Ederle

 

La direttrice Charlotte Epstein era una pioniera dello sport femminile e nel 1919, assicurando che le nuotatrici si sarebbero coperte con un accappatoio appena fuori dalla piscina, aveva ottenuto che alle ragazze fosse permesso di nuotare senza calze. L’episodio descrive alla perfezione alcuni dei pregiudizi che la parità di genere ha dovuto superare nello sport e che includono il sessismo, il puritanesimo sessuale e l’omofobia. Ederle è dunque agli inizi del percorso di liberazione che ha consentito alle donne di giovarsi dei benefici fisici, intellettuali e sociali che derivano dalla pratica del gioco e dello sport.

Sfidando i canoni dominanti di una femminilità passiva e contemplativa, l’altra americana Mildred Babe Didrikson emerse negli anni ’20 come un’autentica sensazione atletica. Svettava nel golf, nel basket, nel baseball, nel tennis e si cimentava con successo in varie specialità dell’atletica leggera: alle Olimpiadi di Los Angeles del 1932 vinse l’oro negli 80 ostacoli e nel giavellotto, finendo seconda nell’alto. Non andò oltre solo perché il Comitato Olimpico, in spregio alla stessa Carta Olimpica che dichiara di promuovere lo sport femminile a ogni livello, impediva alle donne di iscriversi a più di tre gare, con ciò intendendo difenderle dalla loro supposta fragilità psico-fisica. Quando un giornalista chiese a Didrikson se ci fosse qualche gioco a cui non si dedicasse, Babe rispose: «Sì, non gioco con le bambole!». Non ci volle molto perché finisse nel mirino dei media benpensanti, che la definirono mascolina, scarsamente femminile e incapace di eccellere nell’antico e onorato gioco della seduzione. Quando finalmente convolò a nozze con il wrestler di origine greca George Zaharias, lasciandosi crescere i capelli e ricorrendo a un make-up più marcato, i giornali si affrettarono a sottolineare che la più stupefacente atleta del mondo aveva in ultimo imparato a portare i collant e a cucinare per il marito – l’idillio con il consorte durò poco e presto quel nido d’amore fu visitato dalla golfista Betty Dodd, con cui Didrikson intrecciò una love-story omosessuale, fino a che un cancro la uccise nel 1956 a soli 45 anni.

 

 

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Fanny Blankers-Koen

 

L’olandese Fanny Blankers-Koen ebbe invece l’aiuto del coniuge per demolire i tabu che circondavano l’età e la maternità delle sportive. Anche lei caratterizzata da straordinaria polivalenza, si presentò diciottenne ai Giochi berlinesi del 1936, giungendo quinta nella staffetta 4×100 e sesta nel salto in alto. L’invasione dell’Olanda da parte della Wehrmacht non interruppe la sua carriera e la sua ascesa agonistica, né lo fece la nascita del figlio Jan, nonostante dovesse sopportare pesanti critiche e accuse di egoismo per non dedicarsi esclusivamente alla cura del suo bambino. Nel 1945, diede alla luce anche Fanneke e chiese al proprio medico se riprendere gli allenamenti avrebbe potuto nuocere all’allattamento. Il dottore la invitò a scoprirlo e nel 1948 si presentò alle Olimpiadi di Londra, i «Giochi dell’austerità»: stremata dalla guerra, la Gran Bretagna non poté nemmeno provvedere al vitto dei concorrenti e i paesi partecipanti dovettero portare il cibo per i propri atleti. I giornali che la giudicavano troppo vecchia e migliaia di lettere offensive che l’accusavano di essere una madre degenere, non distolsero Blankers-Koen dal suo intendimento. Vinse in scioltezza i 100 metri e dichiarò di voler tornare a casa, ma il marito la convinse a restare. Trionfò anche negli 80 ostacoli e parve decisa a lasciare. Ancora una volta, il marito la incitò a mostrare il suo valore e così vennero altri due ori nei 200 metri e nella staffetta veloce: con poca fantasia e con un cedimento ai pregiudizi che pure aveva contribuito a mettere in discussione, passò alla storia come la «mammina volante».

 

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Paola Pezzo

Di analogo tenore, inclini al luogo comune maschilista, furono i commenti che salutarono ormai vent’anni orsono l’inatteso trionfo di Paola Pezzo nella prima contesa olimpica di mountain-bike. Ad Atlanta, in casa degli americani inventori della bicicletta da montagna, la sconosciuta ciclista veronese battagliò con vigore e determinazione contro le favorite nord-americane. Dopo una precoce caduta, seppe riprendere le avversarie e trarre vantaggio a sua volta da un incidente altrui, involandosi verso il successo davanti a milioni di appassionati e praticanti, incatenati al video dalle insistite inquadrature della sua scollatura esposta al sole cocente. Sulla stampa nazionale, si sprecarono i commenti pruriginosi e voyeuristici. Senza remore di sorta, nelle redazioni si titolò «L’oro di Paola arriva in decolleté» e perfino «Quel gran Pezzo di medaglia», con evidente rimando ai film pecorecci di Edwige Fenech e Lino Banfi.

Dalle Olimpiadi del 2012, l’uguaglianza è stata ufficialmente raggiunta: le donne possono misurarsi come gli uomini in tutte le discipline del programma. I Giochi che partono oggi si incaricheranno di mostrare se alla parità agonistica farà riscontro una narrazione non improntata agli stereotipi di genere.

 

* membro della Società Italiana di Storia dello Sport