Vado a trovare un’amica che fa la volontaria in una casa-famiglia di anziani. Il quartiere è Città-Giardino, su una stradina che si arrampica nel verde fra alberi d’alto fusto e bei villini. Arrivo accaldato e con un po’ di fiatone che è l’imbrunire. La casa è bianca, preceduta da un parchetto. Loro, gli anziani, stanno al piano terra. Oltre il cancello bianco dell’ingresso c’è una scaletta e lo scivolo per i disabili. Accoglienza calorosa, presentazioni. Sono 6, gli anziani, vivono tutti insieme in questo appartamento di proprietà della Comunità di Sant’Egidio. Due di loro giocano a domino con la mia amica al tavolo della cucina, un altro con una folta barba bianca si sta guardando tutto spaparanzato un western in tivù nel salottino del soggiorno e manco si volta. Un altro ancora, in elegante veste da camera e gli occhi celesti appena velati, mi accompagna a visitare le varie stanze compresa la sua. Si chiama Michele, parla un romanesco d’altri tempi, musicale e assai meno canagliesco di quello che si sente oggi in giro, che mi ricorda mia nonna e le lumache a spurgare dentro i secchi in un balconcino popolare di un vecchio palazzo a via Urbino. Gli domando se si trova bene adesso e il viso gli si illumina. «Benissimo. Siamo il numero giusto». Michele lavorava alle Ferrovie. Ha 92 anni ma ne dimostra molti di meno. Gli chiedo qual è il segreto della sua gagliarda longevità: «Cammino moltissimo. Mi piace camminare». Me lo conferma Giovanna Sisti, la responsabile della Comunità, spiegandomi che queste convivenze di anziani, che si chiamano tecnicamente cohousing, stanno dando ottimi risultati soprattutto per quel che riguarda la salute e quindi le aspettative di vita. Molti di questi assistiti vengono da situazioni difficili, sballottati da una casa di cura a un ospedale, spesso soli, con pochi soldi di pensione o nulla. Intanto Michele si siede accanto a una vecchina su una sedia a rotelle, le mette il bavagliolo e la aiuta amorevolmente a mangiare.
«Stanno bene – continua Giovanna mettendomi in mano alcuni fogli fitti di dati e statistiche – nascono amicizie molto forti, qui, Clinio e Oliviero stanno sempre a litigare ma sono culo e camicia». Intanto accendo il registratore portatile e lo piazzo strategicamente in mezzo al tavolone della cucina, attorno al quale c’è sempre una certa animazione. Poi a uno a uno intervisto gli ospiti. Il più loquace e simpatico è Clinio, quello che prima era rapito dal western, emiliano verace di vicino Ferrara. Ogni tanto sparisce perché va a fumare una sigaretta fuori. Indossa un cappelletto rosso, è piccolo di statura, un Babbo Natale dal sorriso buono e dagli occhietti vivaci. Mi chiede subito se è vero che il pezzo andrà sul manifesto e si gasa un sacco quando gli dico di sì. Lui da ragazzo vendeva l’Unità per strada. «Sono comunista io! Tutta la mia famiglia è comunista… Siam comunisti da sempre, sai».
Mentre ci chiacchiero del più e del meno vengono fuori frammenti incandescenti del suo passato di minatore in Belgio, di calzolaio, di boxer, di manovale, di porchettaro, di soldato nell’artiglieria degli Alpini («pure se sono così piccolino!»). A 11 anni la prima fuga da casa. Lo riacchiappano in mezzo alla guazza della campagna i carabinieri e lo riportano indietro a forza. Ma lui tre anni dopo ci riprova. A vent’anni si innamora di una ragazza del suo paese che si chiama Leda. La corteggia castamente, la va a trovare a casa, la porta al cinema, a ballare. Lei era gelosa se lui ballava con le altre. «Gelosa marcia, gelosa di me che son brutto come la cipolla!» Poi lei è morta in un incidente stradale e lui non ne ha voluto più saperne di matrimonio. «Io volevo Leda, mica le altre!», «Ci pensi spesso a Leda?», «Oggi? Sì, ogni tanto ci penso». Ma non è tipo da nostalgie, Clinio, che per un lungo periodo della vita ha dormito in strada e aveva problemi di alcolismo. Però ha come ritegno a parlarne. Dopo la nostra lunga chiacchierata, raccolgo i miei aggeggi e faccio per andare. Ma quando sono sulla soglia, la mia amica mi chiede di aspettare: «Hai dimenticato Oliviero, c’è rimasto male». Mi scuso a lungo con il grande amico di Clinio, anche lui piccolo di statura, che lavorava in un garage. «Il mio garage, era mio, scrivilo, m’ariccomanno, alla Batteria Nomentana». Si fa portare certi oggetti di legno che ha fatto con le sue mani: un bastone di quercia e uno scarpone intagliato nel legno di pero. Anche lui parla un romanesco che non esiste più. «Io so’ pure fantino mancato! Ero pronto a fa er fantino a Capannelle, ma bombardarono Frascati e mi padre me disse da lassa’ perde».

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L’AUTORE
Le finestre romane di Andrea Carraro

 

Giornalista e scrittore, Andrea Carraro collabora con Il Messaggero e le riviste Nuovi Argomenti, Lo straniero e Reset. È stato direttore editoriale della casa editrice Gaffi. Il suo primo romanzo, Il branco – storia di uno stupro di gruppo ai danni di due autostoppiste tedesche – fu pubblicato per intero su Nuovi Argomenti, su iniziativa dell’allora direttore Enzo Siciliano e di Sandro Veronesi. Poi fu edito da Theoria, con postfazione di Filippo La Porta, e Marco Risi ne trasse un film. In seguito ha pubblicato A denti stretti, romanzo che racconta l’iniziazione sessuale di un gruppo di adolescenti; L’erba cattiva, storia di un parricidio che matura in un degradato paese dell’hinterland romano; il melodramma sociale e interetnico La ragione del più forte (premio Acri, premio Il Molinello); la raccolta di racconti romani La lucertola (Premio Cocito-Montà d’Alba) e il romanzo Non c’è più tempo (Premio Mondello, Premio Bari), che narra la discesa nella depressione di un bancario romano che, dopo il tradimento della moglie, perde il lavoro, la casa e diventa un senzatetto. Nel 2007 è uscito Il sorcio, un romanzo che affronta il tema del mobbing; nel 2009 Il gioco della verità, una silloge di racconti che hanno ancora la città di Roma come sfondo; nel 2010 la raccolta di reportage narrativi Da Roma a Roma. Viaggio nella periferia della capitale, introdotto da un saggio di Raffaele Manica. Un suo racconto – Il balcone – è stato inserito nel Meridiano Mondadori Racconti Italiani del Novecento, curato da Enzo Siciliano. Ha realizzato per la Rai il radiodramma La confessione.