«È importante/comprendere il proprio ruolo in una leggenda»: il percorso artistico di Leonard Cohen si può riassumere in questo verso, reperibile nella sua prima raccolta, Confrontiamo allora i nostri miti che, nel 1956, fa di lui l’enfant prodige delle lettere canadesi, allineandone la leggenda personale alle mitologie da confrontarsi con il metro della poesia.

E in questa leggenda, Cohen saprà sempre individuare, dai venti agli ottant’anni, il proprio ruolo, passando da giovane poeta idolatrato come una rock star (si veda, a questo proposito, il documentario Ladies and Gentlemen, Mr Leonard Cohen, reperibile su YouTube) a carismatico leader generazionale per un paese smanioso di trovare il proprio Keats (è lui stesso a scriverlo nel romanzo semiautobiografico Il gioco favorito), da fascinoso folk singer a cantore della pena di vivere dal fondo di disadorne stanze d’albergo (un altro documentario, I am a hotel, ha immortalato questa fase della mitologia coheniana), da «Ebreo Nuovo» (autodefinizione reperibile nel suo secondo romanzo, Beautiful Losers) a monaco buddista, per arrivare all’impeccabile Grande Vecchio che ci ha appena lasciati, venerato e indiscusso Maestro della canzone d’autore, Ufficiale dell’ordine del Canada, Grand’Ufficiale del Quebec, insignito di prestigiosi premi letterari.

Poeta di stampo decadente, fortemente influenzato, ai suoi esordi, da Dylan Thomas e Garcia Lorca, Cohen si aliena a metà degli anni ‘60 le simpatie di quello stesso pubblico che l’aveva trasformato in un’icona della nuova poesia nordamericana, con la controversa raccolta Flowers for Hitler, in cui celebra la segreta anarchia latente in ognuno di noi, denunciando al contempo i pericoli di una norma sociale cui si conformano vittime e carnefici. Poiché «La storia è un ago per addormentarci» compito del poeta per Cohen è riscrivere quella stessa storia nel tentativo di trovare uno spazio per tutti i nomi raggelati «nello spreco dell’anno scorso» e gridare forte altri nomi «tanto privati da bruciare».
È quel che fa nei suoi due romanzi, Il gioco preferito (1963), in cui riscrive la propria storia come ritratto di artista da giovane, e Beautiful Losers (1966), dove ripercorre, in maniera visionaria e tanto trasgressiva da sfociare nell’oscenità, la storia delle minoranze canadesi: i nativi, gli ebrei, i rivoluzionari francofoni del Quebec. Così, mentre la sua parabola poetica ripiega verso il privato, Cohen romanziere inaugura una nuova leggenda, quella dei belli e perdenti, epigoni folli e fallibili dei belli e dannati di Fitzgerald che, contaminati con le trasgressioni dei vari Trocchi, Borroughs, Mailer, Hubert Selby jr., Pynchon, descrivono in una situazione di sconfitta generalizzata istanze e inquietudini che di lì a poco sfoceranno nelle rivolte giovanili del ‘68.

Beautiful losers, è un romanzo estremo, nelle parole del suo stesso autore, «un’enorme folle preghiera», che riflette in maniera emblematica lo zeitgeist dei tardi anni ‘60: da un lato, l’assenza di una struttura definita e la prosa allucinata e allucinogena testimoniano la temperie culturale psichedelica del periodo; dall’altro, l’intrecciarsi di motivi sessuali e religiosi in un caleidoscopio di eccessi che sfiora e oltrepassa il limite della blasfemia rimanda all’esigenza di liberazione sessuale e al confuso bisogno di spiritualità che caratterizzarono la summer of love del 1967. «Scopati una santa … trovati una santa e scopatela all’infinito in qualche angolo di paradiso … scopala finché non trilla come un carillon, finché le luci votive non si accendono gratis»: è il consiglio offerto nel libro contro i mali dell’eccessiva introspezione. Punto di non ritorno della forma narrativa, Beautiful Losers rimane a tutt’oggi un insuperato esempio di destrutturazione del genere-romanzo: metaforicamente, «scopare una santa» significa non solo trascendere le limitazioni dell’umano e della mortalità (la santa del romanzo è morta da più di tre secoli), ma anche violare la perfezione – la santità – della forma narrativa, attraverso un contatto carnale con le parole, una decostruzione fisica degli schemi prestabiliti.

Non è un caso che, dopo questo lavoro, Cohen abbandoni la narrativa e, nella primavera del 1966, mentre esce il romanzo, trovi il suo posto in una nuova leggenda, quella dell’uomo dalla voce magica. «C’è qualcosa di speciale nella mia voce (…) io faccio accadere le cose», affermava già nel Gioco favorito. Scegliendo la parola cantata come unica forma di espressione, Cohen trasferisce nel suo universo musicale i temi del suo mondo letterario.

Le sante folli reperibili nelle poesie e nel secondo romanzo si ritrovano in Suzanne, Nancy o Joan of Arc, mentre storia e religione sono rivisitate in testi in cui si riprende la questione etica posta in Beautiful Losers: se (e come) si possano gestire i traumi della storia senza farsi intrappolare nel gioco dei ruoli tra vittime e carnefici. In mezzo secolo di canzoni, Cohen torna con insistenza a esaltare la bellezza dei perdenti, omologandosi ai suoi beautiful losers, ora sotto le spoglie dell’uomo dal famoso impermeabile blu, ora dipingendosi imprigionato nella Torre della Canzone, sempre e comunque pronto a portare avanti in prima persona il dialogo iniziato nel romanzo del 1966 con queste parole: «Oh, Lettore, lo sai che è un uomo a scrivere tutto questo? Un uomo come te, che anelava a un cuore da eroe. (…) Un uomo che ha sognato come te comando e gratitudine».