Sergio Cofferati è eurodeputato del gruppo dei socialisti e democratici dal 2009. È al secondo mandato.

Brexit è più un atto di democrazia o più un azzardo cinico – e perdente – di Cameron?

Le responsabilità di Cameron sono enormi, ma il verdetto del popolo per quanto traumautico va rispettato. E rispettarlo significa dare avvio immediatamente alle procedure previste dall’articolo 50 del Trattato per negoziare il recesso. Senza perdere neanche un giorno. L’idea del primo ministro inglese di rimandare il negoziato alla fine dell’anno è da respingere con nettezza. Si decide subito. Anche per cercare di contenere gli effetti drammatici.

Le responsabilità di Bruxelles?

Sono evidenti. Il risultato del referendum non è solo il frutto dell’ostilità – anche ideologica – verso l’Unione europea da sempre presente in Gran Bretagna. È soprattutto la conseguenza di almeno dieci anni di cattive politiche della Ue, e della sua timidezza, per usare un eufemismo, di fronte ai drammi che ci coinvolgono, valga per tutti il caso dell’immigrazione.

L’Europa non era popolarissima neanche quando non si parlava tutti i giorni di emergenza immigrazione.

Certo, a causa delle politiche di austerità. Da quando nel 2008 è cominciata la crisi sono state presentate come salvifiche. Ma il rigore non solo non ha aiutato l’Europa a uscire dalla crisi, ma ha prodotto profonde alterazioni nella distribuzione della ricchezza – peraltro una ricchezza calante. Il risultato sono le gravissime disuguaglianze sociali che vediamo perfino nelle scelte elettorali. Perché se si guarda la mappa del voto si capisce benissimo che è la parte più debole della Gran Bretagna che si è ribellata a un’Europa vista come consesso di poteri che favoriscono solo i più forti.

Vede anche lei il rischio «domino», la possibilità che paesi come la Polonia o l’Ungheria prendano la via dell’uscita?

Il rischio c’è ed è bene non sottovalutarlo. A mio giudizio però non viene tanto dalla Brexit quanto dall’accordo fatto precedentemente tra Unione e Gran Bretagna, su richiesta di Cameron, per contenere il pericolo dell’uscita. È stato un accordo pessimo, sottovalutato, ma che ha cambiato qualcosa di fondamentale nei rapporti tra paesi dentro la Ue. A questo punto non credo che l’Ungheria, per riprendere il suo esempio, possa voler uscire dall’Europa, però immagino che vorrà chiedere condizioni specifiche di vantaggio per assicurare la sua permanenza. In altre parole le concessioni fatte a Cameron, la sospensione di Schengen e l’introduzione di forme di dumping sociale, non hanno avuto alcun effetto sui cittadini britannici chiamati al referendum, come si è visto, ma hanno creato un precedente pericoloso.

Lei dice che l’uscita della Gran Bretagna va negoziata «immediatamente», e in realtà lo dicono anche i governi francese e tedesco. Al di là delle parole non crede che, invece, abbiano interesse a tirarla per le lunghe?

Il problema vero è: fare presto, ma per fare cosa? Io penso che sia necessario che il parlamento chieda, e la commissioni autorizzi, una convenzione per riscrivere i trattati. Non basta dire «stop all’austerità, ci vuole la crescita», frase che da un po’ viene ripetuta come uno slogan. Perché l’austerità è figlia dei trattati. Faccio un esempio. Una politica economica di crescita ha bisogno di una politica fiscale comune che la supporti, cosa che oggi è impedita dal Trattato perché certe scelte decisive possono essere prese soltanto all’unanimità. Il paradosso è che viviamo nel tempo dei LuxLeaks, nel tempo dei Panama Papers, e la politica fiscale europea è ancora quella dei singoli stati. Come la politica estera, del resto.

Riscrivere il Trattato in questo clima, però, rischia di peggiorare le cose. Ad esempio avanza la richiesta di riportare i controlli alle frontiere.

Non è che io non veda i pericoli che ci sono nella riscrittura del Trattato. Ma al momento siamo al punto più basso. Se su alcune grandi materie non si supera la regola dell’unanimità e se non si introducono degli elementi di democrazia nelle scelte politiche, non andremo da nessuna parte. Oggi abbiamo un parlamento che ha una base democratica perché è eletto dai cittadini, ma non può proporre leggi. Altrettanto anacronistica è una commissione esclusivamente designata dai governo, che non risponde al parlamento.

L’Italia propone di uscire dalla crisi con un’Europa a due velocità, l’impressione è che lo faccia soprattutto per non uscire dalla serie A in quanto paese fondatore. Può essere una soluzione?

Non è una soluzione ma un ripiego, che rischierebbe oltretutto di far crescere le contraddizioni tra chi è dentro e chi è fuori. Se ci dev’essere una linea di demarcazione è giusto che sia tra chi accetta il nuovo Trattato e chi non lo accetta. Non tra chi è arrivato prima e chi è arrivato dopo.

Corbyn è tra gli sconfitti della Brexit.

Eppure diceva una cosa giusta: «Dentro l’Europa per cambiarla profondamente». Non vedo quale altro possa essere l’obiettivo della sinistra europea. Che su alcuni punti cardine dovrebbe trovare un’alleanza tra le forze riformiste e quelle radicali. Servono convergenze che oggi non ci sono, dunque servirebbe innanzitutto una discussione. Ma per come siamo messi non so nemmeno chi possa proporla.