Il Senato approva a spron battuto il Codice Rosso ma per i centri antiviolenza della rete D.i.Re c’è poco da festeggiare. Molte e diverse erano state le critiche e le proposte fatte nel corso delle audizioni in Senato, ma queste sono state l’ennesima farsa, perché il testo è arrivato in aula blindato e identico a come era stato ricevuto dalla Camera. Tutti gli emendamenti proposti dalle opposizioni sono stati respinti senza nemmeno motivare il perché.

La maggioranza non ha neanche tenuto in conto i rilievi mossi dal Consiglio superiore della magistratura. Alla Camera alcuni emendamenti proposti e alcuni suggerimenti erano stati accolti, al Senato nulla, tutto blindato.

Proviamo allora a guardare il Codice Rosso dal punto di vista delle donne accolte nei centri antiviolenza, donne che hanno scelto di dire basta a una relazione violenta e provare a ricostruire la propria vita.

Il punto più critico dal nostro punto di vista riguarda quei 3 giorni che sono il limite entro il quale il magistrato è tenuto a sentire la donna. Apparentemente – e così viene raccontato dalla maggioranza e dai media – un passo avanti. Sembra una accelerazione di quei processi che tutti sanno essere troppo lunghi e troppo poco tutelanti per le donne.

D.i.Re aveva proposto di sentire la donna entro 3 giorni solo nel caso in cui si richiedesse l’applicazione della misura di protezione e nel caso in cui l’audizione fosse richiesta dalla donna o dal/la suo/a avvocato/a, per evitare la continua ripetizione del racconto che si configura come rivittimizzazione secondaria.

In secondo luogo nulla fa il Codice Rosso per il problema principale, la durata spropositata dei procedimenti giudiziari: oggi ci vogliono in media 6/8 anni per arrivare a una sentenza. E nulla fa per ovviare al problema di sentenze apertamente sessiste, in cui il linguaggio giuridico fa propri tutti gli stereotipi discriminanti nei confronti delle donne, come messo in evidenza nelle due giornate di formazione organizzate da D.i.Re a Firenze e Cosenza in collaborazione con Magistratura Democratica e incentrate proprio sulla formulazione delle motivazioni delle sentenze che scagionano gli uomini maltrattanti.

Per ovviare a tutto questo occorrono risorse per aumentare gli organici della magistratura che si occupa di violenza contro le donne, e per la loro formazione. Troppo spesso le donne non sono credute, nelle aule dei tribunali vengono sottoposte a interrogatori denigranti (modellati su “Processo per stupro”, 1979), la vita privata passata al setaccio per dimostrare una loro corresponsabilità nella violenza subita.

E peggio va in sede civile, nelle cause di separazione quando in ballo c’è l’affido dei figli, dove i magistrati si appoggiano su CTU che – in evidenza ieri nel convegno organizzato da D.i.Re con DireDonne – nel migliore dei casi eludono proprio il tema della violenza, nel peggiore trasformano la violenza subita dalle donne in conflitto familiare con pari responsabilità tra l’uomo maltrattante e la donna che subisce violenza, per arrivare a giudicare negativamente la capacità genitoriale delle madri e costringere i figli, pena il collocamento presso i servizi sociali, a incontri con i padri da cui sono terrorizzati.

Ma risorse nel Codice Rosso non ce ne sono. La formula asettica e criptica è “invarianza finanziaria”. Tutto va fatto con le risorse che ci sono, anche la formazione, che pure avevamo chiesto a gran voce e ora è prevista dal Codice Rosso, anche i percorsi di recupero per i maltrattanti, che almeno accendono una luce su un’interpretazione della pena orientata al recupero come vuole la Costituzione.

Dunque: chi paga la formazione? Chi svolge la formazione? A cosa si tolgono risorse per pagare la formazione prevista dal Codice Rosso?

Restano allora solo i nuovi reati – il revenge porn, gli attacchi con l’acido, i matrimoni forzati – e l’innalzamento delle pene. Senza pensare che alle donne vittime di violenza non interessa quasi mai vendicarsi dei maltrattanti facendoli “marcire in galera”, per usare un linguaggio caro al vicepremier e segretario della Lega. Alle donne interessano processi celeri, il riconoscimento del reato subito, il rispetto della propria parola, e la riconquista della propria vita.

Tuttavia segnaliamo le due cose positive: la comunicazione immediata della notizia di reato alla Procura, che permette una interlocuzione importante con il Pm se necessario, e l’introduzione del reato di violazione della misura dell’ordine di allontanamento o divieto di avvicinamento, che offre finalmente effettività a quelle misure.

Il revenge porn è una norma che mancava, ma che per una svista rischia di non essere efficace per i casi di sexting, i più diffusi. Con minimo sforzo trasversale si sarebbero potute adeguare alcune norme in modo meno demagogico e più efficace. È inutile fare il terzo grado alla donna dopo 3 giorni dalla denuncia se il personale che la accoglie e la ascolta non è formato e non è in grado di riconoscere la violenza.

* Le autrici sono presidente e vicepresidente centri antiviolenza D.i.Re