Può darsi che abbia ragione Landini a reagire a quanti semplificano a dismisura le cose e, a suo dire, ragionano con schemi datati attribuendogli il proposito di predisporsi a capeggiare un partito alla sinistra del Pd (comunque, non un delitto!). Sono incline a pensare che egli sia sincero quando esclude che, allo stato, non è quello il suo obiettivo. Ciò ammesso, la circostanza che una tale prospettiva – paventata da alcuni e auspicata da altri – suoni plausibile già di per sé merita una riflessione. Per parte mia, conferma la convinzione che coltivo da tempo di uno spazio politico che oggettivamente si dilata e rende appunto plausibile un tale approdo. A prescindere e oltre le intenzioni soggettive dei protagonisti, a cominciare da Landini. Provo a mettere in fila le ragioni di tale processo.

In primo luogo, l’azione del governo. Dalla riforma costituzionale al jobs act si spiega la tensione e l’inquietudine montate a dismisura a sinistra, trattandosi di frontiere singolarmente sensibili, concernenti il modello di democrazia e la questione sociale e i diritti del lavoro. Sul piano programmatico concreto, a queste azioni corrisponde qualche omissione: penso alla timidezza sul fronte della giustizia e del contrasto all’illegalità. Sino al deficit di determinazione, denunciato dall’ex ministro Visco, nella lotta all’evasione, culminato nel decreto fiscale che, al netto della sospetta norma pro Berlusconi, più generalmente ammiccava all’universo di chi è sensibile all’idea che la fedeltà fiscale sia un optional. Grosso modo l’elettorato che fu di Fi. Incertezze da mettere in relazione prima con il patto del Nazareno e tuttora con alleati non precisamente disponibili a marcare una svolta etica, dopo venti anni di egemonia berlusconiana.

In secondo luogo, il metodo di governo. Che si fa vanto di decidere a scavalco della mediazione e del dialogo con le rappresentanze sociali. E semmai di privilegiare l’interlocuzione con le organizzazioni datoriali rispetto a quelle sindacali. Circostanza singolare per chi aderisce alla famiglia socialista europea. Come sorprendersi che, a fronte di tale deriva decisionista ostentata con compiacimento e anzi proclamata come la più significativa novità del corso renziano, si sviluppi una mobilitazione sociale incline a intestarsi una soggettività politica?

In terzo luogo, l’evoluzione del Pd nel senso del cosiddetto partito della nazione. Cifra controversa, ma che, a dispetto delle rassicurazioni, inclina a configurare un partito a suo tempo concepito come di centrosinistra nitidamente alternativo al centrodestra, come un partito pigliatutti che occupa il centro del sistema politico e privo di competitor di governo. Una deriva/metamorfosi che è, insieme, causa ed effetto di una spinta a configurare i suoi avversari, a destra e a sinistra, come formazioni prive di cultura di governo e con venature protestatarie e populiste. Non una buona cosa per la democrazia italiana che si sperava finalmente competitiva e dell’alternanza. Una deriva sistemica e una metamorfosi del Pd che lo allontanano dal progetto originario dell’Ulivo. Il quale, a differenza del Pd, era soggetto inclusivo non solo verso il centro, ma anche verso sinistra e che, soprattutto, perseguiva un ambizioso disegno di riforma del sistema politico verso un maturo bipolarismo, verso il traguardo di portata storica di una fisiologica alternanza, a lungo inibita dall’anomalia italiana. Ora il Pd renziano, nel mentre proclama il bipartitismo, rischia di affossare il bipolarismo. A suggellare tale deriva sta l’Italicum, con il premio al primo partito, cioè al Pd, anziché alla coalizione, che invece gioverebbe, in prospettiva, al coagulo di un nuovo polo di centrodestra del dopo Berlusconi, che competa per il governo.

Infine, la sterilità delle cosiddette minoranze interne al Pd. Un partito largo a vocazione maggioritaria si gioverebbe di una vivace e composta dialettica interna. Al contrario, le minoranze, per altro polverizzate, oscillano tra comportamenti occasionali a dispetto e pratiche consociative. Con i loro reiterati penultimatum. Sino al bizzarro documento di Cuperlo sul dl Boschi, che pretende dai senatori l’impossibile e cioè di cambiare una riforma costituzionale che non si può più cambiare! Una minoranza degna di questo nome non dovrebbe partecipare al governo del partito ai vari livelli ma approntare un’agenda parlamentare e di governo alternativa di medio-lungo periodo, preparandosi a vincere il prossimo congresso. In sintesi: uscita dalla gestione di partito e gruppi, programma alternativo, nuova leadership dell’opposizione interna, magari da costruire nel tempo. Facendo non minoranze à la carte e a singhiozzo, ma opposizione disciplinata e responsabile, che si conforma alla regola della maggioranza interna, pur mettendo a verbale i propri specifici, motivati dissensi. Per meno di questo, non è una cosa seria.

Per converso, da un anno a questa parte, abbiamo assistito a un riposizionamento… di massa di parlamentari e dirigenti Pd e al reclutamento da altri partiti di ceto politico in cerca di sistemazione. Con casi davvero imbarazzanti. Penso a chi, come i «giovani turchi», in passato bollarono i governi dell’Ulivo come subalterni al paradigma liberista della «terza via», e oggi sono schiacciati su una linea decisamente più moderata e centrista; o a chi, come la vicesegretaria Serracchiani, entrò dalla porta della trasgressione, della sfida aperta ai gruppi dirigenti e persino della contestazione da sinistra, e ora fa il guardiano dell’ortodossia e minaccia misure disciplinari verso chi si azzarda a dissentire.

In questo quadro, come ci si può sorprendere se, a sinistra, prende corpo un nuovo attore e se esso da «coalizione sociale» naturalmente evolve verso una soggettività politica? Al punto che io, vecchio, impenitente ulivista, mi chiedo se non rassegnarmi a dare ragione a Cacciari, il quale da tempo teorizza – lui auspicandola, io subendola – una separazione consensuale tra centristi renziani e sinistra Pd. Che farebbe di me un apolide.