Il j’accuse indirizzato a ciò che Bologna è diventata e, più ancora, ai suoi amministratori da Raffaele K. Salinari (Il modello avanzato è diventato un non luogo, sul manifesto di giovedì scorso) merita considerazione e risposte, perché ha, finalmente, il merito di allungare le ombre della cronaca su un lungo trentennio in cui «si è disarticolata quella originaria unità tra Civitas, Urbs e Polis» che faceva di Bologna «un esperimento avanzato di inclusione e convivenza tra culture anche molto distanti tra loro». Salinari prende le mosse dallo sgombero di Atlantide, motore di riflessione e iniziativa della comunità lgbt, preceduto e seguito da altri sgomberi, fino a quello dell’occupazione abitativa della ex Telecom, andato drammaticamente in scena il 20 ottobre, e mette all’indice la «incapacità di visione che, sotto il mantello della legalità, oscura in realtà anche la capacità di vedere oltre una gestione ragionieristica dell’ordine pubblico».

È, in fondo, l’incubo secolare agitato da Pietro Calamandrei nell’arringa in difesa di Danilo Dolci (Processo all’art. 4, 1956): il sentimento che le leggi siano beffa di chi sta in alto, ai danni chi sta in basso, che legalità e giustizia siano «un meccanismo ostile fatto per schiacciarli».

Il che è effettivamente sempre stato… fino a quando un’irruzione di popolo nella scena pubblica non scelse di gettare la Politica contro la Storia. Anche e soprattutto a Bologna, dove il secondo dopoguerra, con gli operai che manifestano per il diritto alla casa, i centri anziani, i bambini che sciamano nella città, nei nidi, nelle colonie estive, sotto l’albero di Natale di piazza Re Enzo, nelle scuole speciali di Casaglia, testimoniarono una legalità nuova: quella costituzionale di un nuovo patto civico e repubblicano.

Chiedendosi dove sia finita la città di che rappresentava un modello, Salinari denuncia l’impostazione con la quale il Pd sta «disanimando la vita politica» e, in vista delle prossime amministrative, paventa un «ballottaggio assai probabile» con il Movimento 5 stelle o, addirittura, con la Lega.

La diagnosi, che coglie lo sfilacciamento di un tessuto amministrativo oramai incapace di connettere soggettività e luoghi, centro e periferie, fare e pensare, lascia però spazio all’idea che le «forze vive della città» colgano la grande occasione che oggi si presenta: quella di ricreare un fronte ampio e articolato, a più voci e sensibilità, di quanti vogliano tornare a contare nelle scelte di una città che merita assai più di quel che oggi le tocca in sorte.

Come dire: Arianna non abita più qui, ma mai come adesso vi sarebbe il bisogno e la possibilità di tirare il filo che ancora lega «la febbre del fare» degli anni di Dozza e Fanti alle sensibilità che dimorano in città.

Quel fare – ha scritto Bertolucci nella presentazione del film documentario di Mellara e Rossi su Bologna 1945-1980 – «aveva dietro un pensiero, una condivisione di ideali e una partecipazione di popolo», mentre il fare odierno è autistico o peggio affaristico, ha il sapore del cemento della colata di Idice o del Passante Nord, non è fatto con partecipazione di popolo ma contro quella partecipazione: lì a testimoniarlo, il tradimento del referendum sui finanziamenti alle scuole private, sorprendentemente vinto – e sottolinea vinto – da un eroico comitato cittadino, contro (quasi) tutto e tutti, la scorsa primavera.

Se il perché di questa necessità è, dunque, assolutamente chiaro, non lo è parimenti il come cogliere quest’occasione. Non è chiaro, insomma, chi e come possa convincere Bologna ad essere nuova, restando quella di sempre.

Ebbene, facciamolo adesso e facciamolo insieme! Il germe di nuova idea di città è già dentro le sue forze vive, fatte di sperimentazioni abitative, comitati per la mobilità sostenibile, affollatissime assemblee nei centri sociali che, con ironia franco-bolognese, vogliono congedarsi dalle miserie del presente (bon, aller – che diventa #bonalè), competenze inopinatamente destituite nel campo della cultura, coalizioni civiche che potrebbero adoperare, ad un tempo, piazze di periferia e piattaforme informatiche per la mobilitazione e l’assunzione condivisa delle scelte (mettendo a valore le sperimentazioni in corso all’interno delle comunità di Possibile, di Sel, di Act!), per fare della democrazia, oggi non più di casa, «mezzo» e «fine» di una nuova idea di città.

Insomma, non serve un «laboratorio della Babele di sinistra» come la chiama con spregio Piergiorgio Paterlni, ma una coalizione di cittadini che alle amministrative misuri la propria internità alla comunità locale e la credibilità delle persone e del progetto che propone, sfidando in campo aperto le destre e il Pd , la cui «sola grande forza – come scrive Carlo Galli – è il suo apparire privo di alternative, soprattutto di sinistra».

Solo così potrà emergere, nel processo, non un nuovo governo, ma un governo nuovo. Interpreti, al contempo umili e autorevoli, di un’altra città che già esiste, ma fatica ad emergere mostrandosi in tutta la sua ricchezza, come fu detto, alla vigilia del nuovo secolo, proprio quando si scelse un nome per Atlantide.