Dal 1995, secondo l’Onu, le catastrofi meteorologiche hanno fatto 606.000 vittime e 4,1 miliardi tra feriti e popolazioni che hanno perso la casa.

L’89% delle vittime è nei paesi poveri.

Le perdite finanziarie sono state calcolate intorno a 1,8 mld di euro.

Contro questo disastro domani, domenica 29, vigilia della Cop21, il vertice dell’Onu che si aprirà il 30 novembre a Parigi dedicato ai cambiamenti climatici, cittadini di tutto il mondo scenderanno in piazza in più di 150 paesi. <

Da San Paolo a Nuova Delhi, passando per Kampala, Melbourne, Ottawa, Tokyo, Madrid, in oltre 2000 eventi milioni di persone scenderanno in piazza per chiedere ai rappresentanti degli oltre 190 paesi che si stanno per riunire a Parigi un accordo legalmente vincolante e ambizioso.

A Roma, organizzata dalla coalizione «Parigi 2015: mobilitiamoci per il clima» (www.coalizioneclima.it), composta da più di 150 organizzazioni di promozione sociale, di consumatori, di agricoltori, di solidarietà internazionale e di difesa dei diritti umani, ambientaliste, confessionali, sindacali, ci sarà la manifestazione nazionale con un corteo per il clima e per la pace che partirà alle ore 14 da Campo de Fiori e si concluderà in via dei Fori imperiali con un grande concerto alle 17.

La portata di questa mobilitazione mondiale e dell’appuntamento di Parigi, dopo le stragi degli ultimi giorni, è ancor più pregnante. Il clima è il terreno su cui si misura il segno che assumerà il nostro comune futuro, perché è un’emergenza che non può essere affrontata con gli strumenti della guerra ma richiede un accordo globale e un organismo autorevole che ne verifichi l’applicazione, perché, soprattutto, i signori della guerra sono anche i signori del petrolio (con buona pace di chi vorrebbe ridurre le stragi di questi anni a scontro di civiltà e di religione).

A Parigi si scontrerà una visione democratica contro una visione autoritaria, una che vuole costruire, nello spirito di un accordo globale che garantisca tutte le popolazioni del globo e soprattutto un nuovo scenario fossil free, l’altra che mira a difendere gli interessi delle ristrette ma potenti lobby del fossile. Da un lato le vecchie fonti energetiche del 900, e i conflitti globali che ne derivano, dall’altro l’avvio coraggioso e determinato di una strategia fossil free, che garantisca l’accesso all’energia a tutti.

Oggi lottare per un buon accordo globale sul clima vuol dire anche rifiutare il terrorismo, sostenere la battaglia contro la fame e la povertà, per i diritti dei profughi ambientali, per la democrazia e la pace. Ecco perché da Parigi, dopo la cancellazione da parte del governo francese delle manifestazioni, le associazioni hanno lanciato un appello a tutto il resto del mondo: «Marciate anche per noi», e in solidarietà con tutti coloro che in diversi paesi del mondo sono stati colpiti da attentati terroristici.

E noi sappiamo cosa vuol dire un buon accordo. Vuol dire avviare la traiettoria discendente delle emissioni di gas serra, ponendo fine all’era del fossile e sostenendo senza ambiguità rinnovabili ed efficienza energetica, costruire comunità e territori resilienti, tener conto delle indicazioni della comunità scientifica e delle responsabilità differenziate tra paesi, definire gli impegni finanziari certi e verificabili, assumere piani nazionali di azione per il clima, con obiettivi misurabili per ogni settore. Obiettivo è contenere il riscaldamento globale ben al di sotto di 2°C (possibilmente 1,5°C) accelerando la transizione verso la decarbonizzazione.

Ad oggi gli impegni di riduzione annunciati dai governi responsabili per il 90% delle emissioni climalteranti sono del tutto inadeguati: secondo il Climate Action Tracker (il consorzio dei principali istituti di ricerca in materia), se rigorosamente applicati questi impegni ridurranno solo di un grado il trend attuale di crescita delle emissioni. Inoltre, nulla si sta facendo per eliminare i sussidi alle fonti fossili, che, secondo il FMI, tra diretti e indiretti nel 2015 raggiungeranno i 5.300 miliardi di dollari, pari al 6,5% del PIL mondiale.

E l’Europa non è un’eccezione: per il 2015 il FMI prevede 221 miliardi di dollari, mentre solo quelli diretti ammontano a 68 miliardi. Eliminando questi sussidi non solo si darebbe spazio di mercato alle rinnovabili e all’innovazione tecnologica, ma si avrebbe a disposizione un bel tesoretto da reimpiegare nel sostegno ai paesi poveri e in via di sviluppo.

Ecco perché i sussidi vanno azzerati entro il 2020. La scommessa è che così facendo si potrà assicurare un futuro giusto e sostenibile per tutto il pianeta con un mondo alimentato al 100% da energia rinnovabile entro il 2050.

*presidente nazionale di Legambiente