Il mondo dichiara guerra all’Isis: nel secondo giorno di vertice Nato in Galles il presidente Obama incassa il sì cercato da giorni con il premier britannico Cameron. Sono dieci i paesi schierati contro l’avanzata jihadista in Iraq: oltre a Washington e Londra, scendono in campo Italia, Germania, Francia, Polanda, Danimarca, Canada, la battagliera Australia (che da settimane strepita per intervenire) e Turchia, unico paese della regione a partecipare.

La coalizione di volenterosi avrà due settimane per individuare le modalità di azione che, con tutta probabilità, si risolveranno in raid congiunti contro le postazioni jihadiste a nord, sostegno militare alle forze attive sul campo (i già armati peshmerga kurdi e l’esercito iracheno) e avvio della riconciliazione politica interna.

Da parte della Nato, il segretario generale Rasmussen torna a ripetere la volontà di un impegno diretto se Baghdad dovesse richiederlo. Ma fonti interne hanno riportato di un probabile maggiore coinvolgimento che si tradurrebbe nell’assistenza alla sicurezza irachena e nel coordinamento di un ponte aereo per rifornire il fronte anti-Isis.

Ma nessun soldato metterà piede nel paese, specificano dal summit i diretti interessati, né per ora si allargherà la missione alla vicina Siria, nonostante il palese avanzamento dell’Isis tra Aleppo e la roccaforte Raqqa. Ad annunciare la nascita della coalizione anti-terrore è stato ieri il segretario di Stato Usa Kerry: «Abbiamo la capacità di distruggere l’Isis. Può richiedere un anno, due anni o tre. Ma accadrà. Dobbiamo attaccarli per impedire che occupino altro territorio, rafforzare le forze di sicurezza irachene e chi nella regione è pronto a cacciarli, senza impiegare le nostre truppe. Penso che questa sia una linea rossa per tutti i presenti: nessuno stivale sul campo di battaglia».

Nella visione di Kerry, oltre a raid e aiuti umanitari, sarà necessario anche fermare l’ingresso di apprendisti jihadisti e chiudere i rubinetti dei finanziamenti ufficiosi dell’Isis. Punto interrogativo sugli eventuali bombardamenti. Il premier britannico Cameron – che aveva già dato la disponibilità di Londra a partecipare ai raid – ha sottolineato che né Usa né Gran Bretagna hanno chiesto agli altri 8 paesi di prendere direttamente parte all’azione militare. Ma il fatto che una simile soluzione sia arrivata in un summit Nato – e quindi sotto l’ombrello del Patto atlantico – renderà più semplice un impegno concreto, i cui dettagli politici potrebbero essere definiti nel prossimo incontro dell’Assemblea Generale dell’Onu, previsto per metà settembre, e siglati in una risoluzione del Palazzo di Vetro.

Proprio il passaggio per le stanze Onu escluderebbe la Siria dall’intervento della neonata coalizione: difficile che Mosca – membro permanente del Consiglio di Sicurezza – non blocchi una risoluzione che relega in un angolo Assad, possibilità concreta già ventilata da Cameron che con Damasco non vuole dialogare.

Al contrario, la coalizione opererebbe in territorio siriano come fatto finora da diversi governi occidentali, attraverso l’armamento e il finanziamento delle opposizioni moderate: punto critico visto che in passato le armi occidentali sono transitate dalle mani dei moderati a quelle degli islamisti che contemporaneamente hanno saputo isolare l’Esercito Libero Siriano, braccio armato della quasi scomparsa Coalizione Nazionale.

Ad ottobre il Congresso Usa darà il via libera alla richiesta presentata a giugno da Obama di inviare 500 milioni di dollari alle opposizioni moderate siriane, mentre resta aperta l’adesione indiretta dei paesi arabi: la Giordania, presente in Galles, fornirebbe l’intelligence, mentre Arabia saudita e Emirati arabi altri petroldollari a favore dei gruppi anti-Assad.

E in vista dei negoziati sul nucleare del 18 settembre a New York e nel timore di un indebolimento dell’asse sciita Hezbollah-Teheran-Damasco, anche l’Iran (che sta già armando i kurdi e non intende perdere influenza su Baghdad) si dice della partita: ieri l’Ayatollah Khamenei, con una decisione storica, ha dato ordine al comandante delle Guardie Rivoluzionarie Soleimani di collaborare con gli Stati uniti nella campagna anti-Isis.

E mentre i leader mondiali discutono di come distruggere gruppi da loro indirettamente foraggiati con armi, denaro e strategie settarie, in Iraq la guerra civile è all’apice: ieri l’ennesima autobomba è esplosa nel cuore di Baghdad, nel quartiere sciita di Zafaraniyah (sette morti), mentre una seconda colpiva il mercato nel distretto sciita di Obeidi (tre morti). Poche ore prima un ordigno nell’area di Iskandariyah, sud della capitale, ha colpito un convoglio di miliziani sciiti uccidendone quattro.

A nord le bombe governative contro Mosul, occupata dall’Isis il 9 giugno, hanno ucciso cinque civili. Il target era il consolato turco, da due mesi trasformato in quartier generale jihadista, ma il raid ha centrato una casa. A sud di Mosul, nel villaggio di al-Houd, a morire è stato Maiser al-Waqaa, capo tribale sunnita, ucciso dall’Isis perché impegnato nella battaglia anti-jihadista.