«Quando si parla di rendere l’America di nuovo grande tutti di solito pensano agli anni Cinquanta, all’epoca di Eisenhower: quando se eri un uomo, bianco ed eterosessuale, ti andava tutto bene», dice all’incontro con la stampa George Clooney, a Venezia per presentare il suo nuovo film: Suburbicon. Un film ambientato proprio nella «grande» America di allora, in una cittadina residenziale immaginaria: uno dei tanti «paradisi» della middle class bianca statunitense. I fatti che vi accadono, spiega però Clooney, sono tratti da ciò che realmente accadde in un sobborgo della Pennsylvania degli anni Cinquanta quando vi si trasferì la prima famiglia nera. «Nel film i cittadini scrivono una petizione contro i nuovi arrivati, in cui si dicono a favore dell’integrazione, ma solo quando i neri si saranno ‘educati’. Noi non abbiamo inventato niente, abbiamo ripreso parola per parola la petizione che era stata scritta in Pennsylvania».

Clooney e il co-sceneggiatore Grant Heslov hanno infatti cominciato a scrivere il copione di Suburbicon durante la campagna elettorale: «Esattamente nel momento in cui Trump ha iniziato la corsa per la presidenza», spiega Heslov. In un periodo, quindi, in cui si parlava spesso di costruire muri – racconta il regista – e noi abbiamo guardato indietro, ai molti momenti della nostra Storia in cui si è discusso di questi temi. Sono cresciuto nel Sud degli Stati uniti durante gli anni delle lotte per i diritti civili: a quei tempi pensavamo che l’epoca della segregazione razziale stesse ormai volgendo al termine, ma in realtà è un problema che continua a riemergere».

Protagonista del film è però un’altra famiglia – bianca e perfetta – al cui interno si consumano le peggiori atrocità mentre l’intera ridente cittadina è impegnata a stringere d’assedio i nuovi arrivati. «Inserire questa folle famiglia nella vicenda ancora più folle che si svolge intorno a loro mi sembrava la cosa giusta da fare – dice Clooney – Tutti rivolgono la loro attenzione nella direzione sbagliata: danno la colpa di ciò che sta accadendo agli African american, perché i maschi bianchi sentono di stare perdendo i loro privilegi».

La storia di Suburbicon viene da una sceneggiatura mandata a George Clooney dai fratelli Coen quasi vent’anni fa, e che come racconta l’attore e regista si concentrava interamente sulla famiglia di Gardner Lodge, interpretato da Matt Damon, che da padre e marito dall’apparenza perfetta si trasforma in un mostro sanguinario. «Non c’è niente che rappresenti il privilegio dei bianchi quanto l’immagine del mio personaggio che va in giro su una bicicletta, ricoperto di sangue, mentre tutti sono impegnati a dare la colpa a qualcun altro», spiega l’attore.

Rimaneggiata da Clooney e Henslov per includere le tensioni razziali di quell’epoca, la storia del film parla direttamente agli Stati uniti di oggi, a fatti come la rivolta di Charlottesville e alla presidenza razzista di Donald Trump. «Sono un ottimista – dice Clooney – ma non posso fare a meno di essere arrabbiato: con noi stessi, con il nostro Paese e per come sta andando il mondo. Suburbicon è un film arrabbiato, non vuole essere una lezioncina di civiltà. E arrabbiata è l’America tutta: non ho mai visto tanta rabbia in vita mia, e sono stato anche testimone del Watergate. La rabbia è come una nube che ci sovrasta».

Una furia cieca echeggiata dai bianchi che assaltano la casa dei nuovi vicini armati delle bandiere dei Confederati: «La bandiera dell’esercito sudista veniva sventolata andando in guerra contro gli Stati uniti, per mantenere la schiavitù. Se qualcuno la vuole indossare su una maglietta sono fatti suoi. Ma non è concepibile che sventoli da un edificio in cui magari vivono pure delle famiglie nere» conclude Clooney, che per il suo impegno politico è da tempo oggetto di rumors e speranze: che sia lui il prossimo candidato democratico alla presidenza? «Sarebbe divertente», risponde il regista con sarcasmo. «Di certo – interviene Matt Damon – mi piacerebbe vedere chiunque altro alla Casa Bianca» rispetto al suo attuale inquilino.