Fa paura l’arte? Sì, moltissimo, è la peggiore nemica che si possa incontrare al fronte: non c’è stata guerra che non si sia accanita sul patrimonio per mettere in atto quella sorta di damnatio memoriae attraverso la quale rigenerarsi e rifarsi un’identità. Magari cominciando con l’attaccare alle pareti del proprio chalet di montagna un Renoir «museale», come vediamo in una delle scene più riuscite del film The Monuments Men, quando i segugi dell’arte perduta smascherano il gerarca tedesco che ha trafugato quadri mozzafiato. I nazisti, quell’atto predatorio, lo fecero in grande scala, con uno sterminio dei capolavori senza precedenti. Sono state oltre cinque milioni le opere razziate da Hitler e i suoi, fino ad arrivare alla «Operazione Nerone» che già dal nome non prometteva nulla di buono: obiettivo, incenerire i tesori che non si potevano portare via, una volta capitolato. Da allora, la pratica della cancellazione dell’altro attraverso l’assassinio simbolico della sua cultura non si è mai più fermata: la lista luttuosa – Iraq, Kosovo, Siria, Egitto, Libia, Afghanistan – si è allungata all’inverosimile e la lotta contro l’iconoclastia non ha trovato più molti detrattori da arruolare fra le sue fila.

È proprio qui, su questo pericolosissimo crinale della Storia, che durante il secondo conflitto mondiale entrarono in scena i «Monuments Men», quel manipolo di improbabili soldati – direttori di musei, scultori, architetti e mercanti d’arte – che vennero arruolati su mandato di Roosevelt, a prescindere dalla loro età anti-leva, per salvare la produzione dell’immaginario plurisecolare del Vecchio Continente. Non solo dai nazisti, ma anche dalle bombe per niente «intelligenti» degli Alleati e, almeno stando al regista, dal saccheggio compulsivo dei russi.

Il film, passato al festival di Berlino e da oggi nelle sale italiane, è scritto, diretto, prodotto e interpretato da George Clooney e può contare su un cast stellare – fra gli altri, Matt Damon, Bill Murray, Jean Dujardin e la «conservatrice» del Jeu de Paume, Cate Blanchett. Nonostante ciò, come già scritto su queste pagine, non ha suscitato grandi entusiasmi in America. Troppi cliché. Eppure prende di mira una vicenda poco nota e bellissima, la stessa raccontata anche tra le pagine del libro di Robert M. Edsel. I personaggi sono ispirati ai reali «soldati dell’arte» che agirono in barba alle derisioni dei loro colleghi militari, così come le miniere, deposito delle opere rubate, ricalcano quelle della storia (solo ad Altaussee, in Austria, vennero trovati 6.577 dipinti, 230 disegni, 137 sculture, 122 arazzi e migliaia di casse con libri). Così, davanti agli occhi degli spettatori sfilano centinaia di capolavori (in copia). Due però catturano lo sguardo e creano un’atmosfera thriller. Uno è la Madonna di Bruges di Michelangelo, che fu sul serio recuperata miracolosamente. È una scultura realizzata tra il 1501 e il 1506, che per la fattura e la collocazione geografica rimane un pezzo eccentrico nella produzione del Buonarroti. L’altro è il Polittico dell’Agnello Mistico di Jan van Eyck, già depredato nel Settecento, poi dai tedeschi nel 1914.

Oggi sappiamo che se la viennese Accademia di Belle Arti non avesse rifiutato gli acquerelli di Hitler e l’avesse ammesso in aula, il mondo forse sarebbe andato diversamente. Per consolazione, sappiamo anche che, comunque, il dittatore non riuscì a costruire il suo Führermuseum, «memorial» di tutte le razzie possibili. L’arte è stata la sua bestia nera.