I ricordi di Mattia, 11 anni, tornano costantemente alla morte di Said, un ragazzo cresciuto come lui in un’imprecisata banlieue di Francia e ucciso dalle botte di un poliziotto. Una «bavure», letteralmente «sbavatura» rispetto alle regole, come tante che si registrano con drammatica frequenza ogni anno nel paese, su cui indaga Nulla si perde (e/o, pp. 286, euro 18, traduzione di Giovanni Zucca), il romanzo di Cloé Mehdi, scrittrice nata a Vénissieux, nella periferia di Lione, epicentro già negli anni ’80 delle prime rivolte e dei primi movimenti autorganizzati delle banlieue. Un noir dove un pugno di personaggi costretti alla marginalità, riuniti intorno al piccolo Mattia, cercheranno grazie alla forza dei sentimenti di trovare una strada verso la libertà e la giustizia.

Raccontare l’ennesima «bavure» della polizia di cui è rimasto vittima un ragazzo della banlieue è anche una richiesta di giustizia?
Come i personaggi del romanzo, non credo molto nella giustizia «istituzionale», non mi ha mai dato motivo di prenderla troppo sul serio. Piuttosto, questa storia è un invito a svegliarsi a dire: «guarda cosa sta succedendo, non può andare avanti così». Da ragazza ho visto e subito tanta di quella violenza e umiliazioni quotidiane da parte della polizia da diventare più che attenta a queste morti ricorrenti per mano degli agenti. Però il modo in cui vengono descritte tali vicende proprio non mi piace, a partire dal termine «bavure» che sembra fare riferimento a un qualche «errore», mentre invece questi omicidi fanno parte integrante della storia della polizia francese e della sua lunghissima impunità: non sono atti isolati, slegati dalla realtà, ma il risultato di un lassismo politico e giudiziario che non può continuare.

La scrittrice Cloé Mehdi

 

Perché ha scelto di narrare questa vicenda con un noir: la ricerca di una verità negata lo richiedeva?
In realtà quella che descrivo è una sorta di inchiesta «capovolta»: sono i parenti della vittima che cercano di capire le circostanze di un omicidio che è stato commesso da un poliziotto. E il noir è davvero un ottimo strumento per indagare le contraddizioni di fondo della nostra società. Questa è quasi la sua ragion d’essere.

Due dei protagonisti, salgono su una gru che sovrasta il quartiere popolare in cui sono cresciuti e che ora è sotto attacco della speculazioni immobiliare. La memoria dei luoghi pesa come quella degli abitanti di queste zone?
Sì, proprio perché si fonde con quella delle persone. Se distruggi una strada, come fai a ricordare cosa hai vissuto in quel luogo? Con questo passaggio del libro illustro l’ipocrisia insita nella retorica politica che sostiene che per questa via le cose possono cambiare. Il problema è che in realtà si smantellano edifici insalubri ma solo per trasformarli in aree residenziali e accelerare per questa via la gentrificazione delle ex zone popolari. Le nuove case saranno certamente molto più vivibili di quelle di prima, solo che i vecchi abitanti non si potranno permettere l’aumento del costo della vita nel quartiere che ne accompagna la ristrutturazione. Alla fine, il vero risultato sarà che i poveri saranno espulsi dalla città.

Il dibattito sui «valori» della République, sul significato della cittadinanza, è costante in Francia. Come è vissuto da chi nasce come voi in una zona come quella di Vénissieux?
Sono nata in quella zona, anche se sono cresciuta altrove, in un quartiere che non era fatta solo di case popolari. Nel 2007, quando Sárközy creò un «ministero dell’identità nazionale» andavo alle superiori e ricordo che nessuno nella mia scuola si sentiva coinvolto da quel dibattito, e questo malgrado io e i miei compagni fossero proprio il tipo di persone che intendeva prendere di mira: per la maggior parte figli e nipoti di ex colonizzati, appartenenti al mondo popolare o al ceto medio. Questo tipo di riflessioni appassionano tanto gli intellettuali, riempiono i salotti televisivi, ma ma non interessa a nessuno per strada, a parte qualche «identitario» di estrema destra.

Proprio dalla periferia di Lione prese avvio all’inizio degli anni ’80 la Marcia per l’uguaglianza e contro il razzismo, la cosiddetta «Marche des beurs», il più importante movimento nato nelle banlieue. Cosa ne resta oggi?
È un quesito molto interessante, ma credo sia difficile dare una risposta esaustiva. Perciò mi soffermerò solo sulla parola beur che è usata per riferirsi ai giovani arabi di «seconda generazione», quelli i cui genitori sono nati nel Maghreb. Un termine utilizzato dai giornalisti, dai politici, ma con cui nessuno si è mai autodefinito. Perciò, proprio il modo in cui i media hanno ribattezzato all’epoca quell’iniziativa, e continuano a ricordarla ancora oggi, ha contribuito a ridurre l’impatto delle rivendicazioni che portava in sé e, in qualche modo, a circondarla di una semantica rassicurante, che non disturbasse troppo il resto della società francese.

Nel discorso pubblico è cresciuto l’allarme per lo sviluppo nelle periferie francesi di un nuovo «Islam politico». Un tema su cui è intervenuto anche Macron annunciando misure contro il «separatismo islamista». Cosa ne pensa?
Ho l’impressione che oggi in Francia sia considerato in modo problematico anche il semplice fatto che un musulmano chieda di poter pregare sul luogo di lavoro o che una donna rifiuti di togliersi il velo in ufficio. Quanto alle norme annunciate, sembra che il governo sia deciso ad allargare piuttosto che a ridurre il fossato che lamenta con questa parte della popolazione francese. E questo malgrado lo stesso Macron abbia ammesso che questo «separatismo» è anche frutto del modo in cui la Francia «ha accolto» le diverse ondate di immigrazione. Per non parlare del passato coloniale di questo paese… L’unico modo per far sì che in molti si rifugino nella religione, sentendosi considerati come «altro» rispetto al paese in cui sono nati o vivono, sia quello di garantire che i diritti di tutti siano rispettati.

 

Crede si possa parlare di una «scuola narrativa» delle banlieue per l’attenzione dedicata da un numero crescente di autori e autrici a questi luoghi e ai linguaggi che vi si sono sviluppati?
Rispetto a quanto avveniva nel passato, la possibilità di pubblicare si è aperta ormai a persone di ogni estrazione sociale. Perciò credo sia normale che l’immaginario cresciuto nelle periferie negli ultimi decenni sia oggi in qualche modo restituito ad un elemento di realtà dopo che è stato a lungo descritto e evocato da persone che non ne erano coinvolte, che con le banlieue non avevano nulla a che fare. Tutte quelle storie che erano state «confiscate» da altri possono tornare a casa attraverso un numero sempre più vasto di romanzi e racconti. Mi sembra una cosa di cui rallegrarsi.

Dalla fine di ottobre la Francia è tornata in lockdown. Cosa significa affrontare un momento difficile come questo in un grande quartiere popolare, dove è facile sentirsi isolati e abbandonati a sé stessi già in condizioni normali?
Non vivo più in una banlieue, ma i cittadini di questi quartieri già in occasione del primo lockdown avevano denunciato il fatto che il modo di vivere tali misure e di far fronte alla pandemia stessa risente moltissimo delle proprie condizioni sociali. Per non parlare della violenza della polizia esplosa in modo macroscopico proprio durante il «blocco» della primavera scorsa. Allo stesso modo, i media hanno trattato diversamente le violazioni del lockdown a seconda che fossero compiute dai «parigini» o dagli abitanti delle periferie: nel primo caso si è parlato del fatto che si trattava solo di persone che volevano godersi il sole, mentre i banlieusard venivano descritti per il loro presunto disprezzo della salute generale. Insomma, la pandemia non ha fatto che rendere evidente ciò che non funziona anche soltanto nel modo di guardare a questi quartieri e ai milioni di francesi che ci vivono.