Il Super martedì è dunque andato secondo le previsioni della vigilia. Eppure il giro di boa del primo marzo apre uno scenario nelle primarie presidenziali americane che resta carico di imprevisti e complessivamente ancora imprevedibile. Hillary Rodham Clinton e Donald Trump sono d’ora in poi indiscutibilmente i front runner nei rispettivi schieramenti. Possono perfino pensare di avere in tasca la nomination nel Partito democratico e nel Partito repubblicano. Ma la via verso la convention di Filadelfia, per Hillary, e la via verso la convention di Cleveland, per «the Donald», sono lastricate d’incognite.

Un’investitura di Hillary che non sia corale e sufficientemente convinta da parte delle diverse anime del Partito democratico e un’incoronazione di Trump che sia il frutto di fratture e lacerazioni nel Partito repubblicano, porrebbero sia all’una sia all’altro problemi tali da comprometterne la vittoria l’8 novembre nel duello finale.

Entrambi, in modo diverso, sono personaggi che dividono, sia nel loro stesso campo sia di fronte all’elettorato più ampio. D’ora in poi, pertanto, nelle prossime elezioni primarie che si svolgeranno di qui a giugno, i numeri continueranno ad avere un peso, ovviamente, ma non tanto nei termini di una rimessa in discussione dei posizionamenti acquisiti (nelle primarie repubblicane è in teoria ancora possibile e c’è un gran da fare in questo senso) quanto nei rapporti di forza che si determineranno tra i contendenti rimasti e i rispettivi blocchi che li sostengono.

Nel frattempo si svilupperà e s’intensificherà lo scontro tra Clinton e Trump, con intrecci e riverberi nelle competizioni in corso nei rispettivi recinti, e viceversa. Nel campo democratico la tenuta di Sanders nel supermartedì – anche se inferiore alle grandi attese maturate dopo i buoni risultati delle primarie iniziali – indica che il duello Hillary-Bernie continuerà ancora, contro la speranza degli strateghi clintoniani di poter lavorare da subito al passaggio dalla loro parte dei sostenitori del senatore del Vermont. Anche se, al tempo stesso, essi ammettono che è nel massimo interesse di Hillary tener vivo il confronto interno, perché il vero rischio è quello di un progressivo, ulteriore allontanamento di elettori e militanti democratici, se la competizione dovesse diventare la corsa solitaria di Hillary.

I dati della partecipazione alle primarie dem non sono infatti finora particolarmente incoraggianti, tanto meno lo sono sia rispetto alle primarie del 2008, dove si registrò l’affluenza record di 36 milioni di elettori, sia soprattutto rispetto a quelle in corso nel Partito repubblicano, alimentate da una competizione tra diversi candidati e, soprattutto, dal fenomeno Trump. Non significa che questi dati si tradurranno in dati di portata analoga nelle elezioni generali, ma sono un sintomo importante, costituiscono un campanello d’allarme per Hillary. Sul Daily News Shaun King avverte che «qualcosa si sta sfarinando, adesso, dentro il Partito democratico e, se si verifica la stessa cosa a novembre, ai democratici potrebbe costare la Casa bianca».

A mitigare la portata di questi segnali c’è quello, assai importante, della partecipazione alta degli elettori africani americani, e in grandissima percentuale per Hillary. Jamelle Bouie su Slate osserva che in Virginia, secondo gli exit poll, l’84 per cento dei neri ha votato per Hillary; in Georgia l’83; in Tennessee l’82; in Arkansas l’88. Ed è andata bene anche col voto ispanico, con un margine di due a uno in Texas nei confronti di Sanders. Non sono solo numeri, ma, come ragiona ancora Bouie, si ha la netta impressione che «dopo anni di speculazione sul voto dei neri, se andranno a votare anche se sulla scheda non ci sarà Barack Obama, la risposta è sì, ci andranno». «E se la loro partecipazione sarà analoga a quella che ci fu per Barack Obama, allora il Partito democratico – e Hillary in particolare – potrebbe avere un percorso agevole verso la Casa Bianca».

Certo, la «questione demografica» si è rivelata presto la questione dirimente nel duello con Sanders. In modo assai diverso lo sarà nel confronto finale con Donald Trump, che difficilmente potrà avere accesso a una porzione sia pure piccola del voto nero e di quello ispanico, ed è un carattere di fondo di questo candidato che potrebbe costargli caro negli stati dove sono forti il blocco elettorale nero e quello ispanico.

Eppure perfino questo assunto, che prima dell’inizio delle primarie appariva incontrovertibile e sicuramente il più rilevante, sta assumendo un peso diverso, non perché i toni razzisti e xenofobi di Trump si siano attenuati ma perché il multimiliardario newyorkese è ormai un personaggio che fa breccia non tanto con i contenuti del suo messaggio ma con la forza debordante, larger than life, della sua personalità, un’ipertrofia continuamente alimentata dalla perversa dilatazione mediatica che l’accompagna e l’ingigantisce. Alimentata anche dalla pochezza desolante dei suoi avversari diretti, ormai solo Ted Cruz e Marco Rubio, i due capponi manzoniani, e un evanescente John Kasich. Alimentata soprattutto da un establishment repubblicano sempre più nel panico, e ormai diviso tra chi vuole cavalcare l’onda e chi cerca disperatamente di arginarla.

E si tenga che, quando si parla di establishment del Grand Old Party, s’intende anche la rete consolidata di apparati, organizzazioni, gruppi d’interesse e lobby che lo sostengono. Lo stress è tale, in questo mondo conservatore, di fronte all’eventualità che Trump sia «nominato» e poi sia eletto che recentemente l’ex-direttore della Cia, Michael Hayden, ha detto che se Donald Trump dovesse diventare presidente degli Stati uniti, e dunque il commander-in-chief, e decidesse di mettere in pratica certe proposte che ha lanciato in campagna elettorale, i militari sarebbero legittimati a rifiutare i suoi ordini.

Al tempo stesso, Trump ha buon gioco quando rovescia l’accusa di essere un divider del campo repubblicano e afferma che la sua campagna in realtà sta ampliando la tradizionale platea di quel partito, con la conquista di indipendenti e anche di democratici, non necessariamente in ambienti etichettabili come conservatori estremisti, ma anche in ambienti «insospettabili».

Ed è questo in effetti l’aspetto più inquietante del trumpismo, è la demagogia che fa presa non solo nel ceto medio bianco più esposto alla crisi, spaventato e rancoroso, ma perfino nelle élite con studi nelle migliori università. Come ha detto il senatore dell’Alabama, Jess Sessions, presentando Trump a un comizio nel suo stato, «questa non è una campagna, è un movimento».

Che tanta attrazione resti intatta o anche cresca fino a novembre. Che si traduca l’8 novembre in voti reali. È naturalmente da vedere. Ma non va dimenticato che, alla fine, non ci sarà un referendum su Donald Trump. Sarà una scelta tra lui e Hillary, e Hillary dovrà avere un sostegno enorme e diffuso per tenergli testa e vincere.