Hillary Clinton e Donald Trump hanno stretto la morsa attorno alle rispettive nomination in una tornata di primarie che ha obbligato Marco Rubio alla resa. Il voto in North Carolina, Missouri, Illinois, Ohio e Florida è stato decisivo per il numero di delegati in palo e perché gli ultimi due stati in particolare sono swing states che spesso risultano decisivi nelle elezioni generali di novembre.

Hillary Clinton ha scongiurato una rimonta di Bernie Sanders, che dopo la vittoria della scorsa settimana in Michigan sembrava  poter ripetere buoni risultati negli altri stati del Midwest: Missouri, Illinois e Ohio. Invece la Clinton ha messo a segno vittorie decisive proprio in Florida e Ohio (e North Carolina), si è imposta in Illinois dove è cresciuta ed è passata per una manciata di voti dopo un testa a testa in Missouri, un sostanziale pareggio quest’ultimo che all’atto pratico non aiuta Sanders a rimontare la conta dei delegati complessivi (1094 contro 774). Mentre le primarie repubblicane sono miste, con molti stati assegnati con sistema maggioritario secco (il vincitore si prende tutto il bottino di delegati), i democratici utilizzano un sistema proporzionale che preclude rimonte drammatiche.

 

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Non deve sorprendere quindi che il discorso della vittoria di Hillary abbia avuto toni da investiture, concentrando l’attenzione e gli attacchi sul papabile avversario – Donald Trump.

Quest’ultimo nel frattempo si è assicurato vittorie in North Carolina, Illinois e Missouri e si è imposto con ampio margine (quasi 2-1) su Marco Rubio in Florida. Il senatore Cubano-Americano di Miami non ha avuto altra scelta che tenere fede alla promessa di ritirarsi se non fosse riuscito a vincere la partita in casa.

Nel suo concession speech, l’ex delfino del partito repubblicano ha esortato i sostenitori a “non cedere alla frustrazione  e alla paura” ammettendo che questo “non era l’anno giusto per  lanciare un messaggio positivo”.  Il suo discorso mesto e intriso di rimpianto è un necrologio sulle residue speranze della fazione moderata, che aveva sperato di coalizzarsi attorno a lui per arginare il trumpismo.

Per loro qualche speranza è giunta dall’Ohio dove ha vinto l’ultimo moderato rimasto in lizza: John Kasich. Il governatore di quello stato ha battuto decisamente Trump proponendosi come ultima alternativa al populismo e all’estremismo conservatore di Ted Cruz. Questa rimane tuttavia la sua prima ed unica vittoria  e con appena 138 delegati a oggi è da escludere una sua possibile nomination.

D’altronde il calcolo ormai non è tanto su un candidato che possa battere Trump (checché ne dica l’eterno secondo Ted Cruz).

 

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Per i repubblicani si tratta piuttosto di trovare una strategia che possa aprire la strada a un’eventuale alternativa. Questo significa innanzitutto evitare che Trump raggiunga i 1237 delegati necessari entro luglio (ora è a 621). In questo caso tutto si deciderebbe in fase di convention (a Cleveland) quando potrebbero essere presentati candidati alternativi votati dall’assemblea.

Se invece così non dovesse essere  – ed è del tutto possibile che a questo punto sia troppo tardi per montare una resistenza sufficiente – si profila la prospettiva di un candidato inviso a buona parte della dirigenza del proprio stesso partito. Dopotutto le vittorie di Trump, anche quelle più decisive, a oggi sono sempre avvenute per semplice pluralità di candidati, senza mai raggiungere il 50% dei voti.

Se dovesse matematicamente conquistare la nomination rimane l’ipotesi di un terzo candidato indipendente sponsorizzato dal consistente partito del “never Trump”, i tradizionalisti di partito che assicurano di preferire qualunque alternativa a un voto per Trump.

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