Come Clint Eastwood è diventato Clint Eastwood? Senza sprecare troppe parole – e astenendosi dalle sofisticate dichiarazioni di poetica e dalle compiaciute analisi dello stile – nessun altro libro sembra rispondere alla domanda meglio di Fedele a me stesso Interviste 1971-2011, a cura di Robert E. Kapsis e Kathie Coblentz, appena uscito nella bella traduzione di Alice Casarini da minimum fax (pp. 467, euro 20,00). Se circoscrive la scelta dei testi all’area anglosassone, soprattutto statunitense, ma ci sono anche quattro interviste di Positif, una dei Cahiers du Cinéma e una di Le Monde, il volume è interessante come bilancio dei rapporti – per molto tempo difficili – tra la critica americana e il grande cineasta.

Si sa tutto del clamoroso successo europeo della «trilogia del dollaro», che rappresenta la svolta nella carriera dell’attore, ma si trascura di solito la lunga gavetta in Gli uomini della prateria, la serie tv in cui resta sette anni per oltre duecento puntate, dove per la prima volta comincia a pensare alla regia: «Stavamo girando la scena di una mandria di bovini lanciati in una corsa impazzita: io cavalcavo in mezzo a tremila mucche, la polvere volava ovunque e l’effetto era davvero straordinario. Sono andato dal regista e gli ho detto: ‘Dammi una macchina da presa. Là in mezzo c’è della roba stupenda che tu, stando fuori dalla calca, non riesci a vedere’. Ma non se ne fece nulla».

Nella scuderia delle giovani promesse della Universal, riesce a dire solo poche battute in una decina di film, ma non smette mai di aggirarsi negli Studios e di interessarsi all’intero processo produttivo, rubando i segreti ai cameramen e ai montatori, che incarnano l’artigianato hollywoodiano in cui si riconosce. Sul set di Per un pugno di dollari, nell’incontro/scontro con Sergio Leone si comporta più da coautore che da star, tagliando dalla sceneggiatura pagine e pagine di dialoghi e imponendo il look del personaggio e il suo carattere sfuggente e misterioso.

Negli anni settanta e ottanta, quando è già passato alla regia, la rivisitazione del western accentua il carattere fantasmatico del protagonista. Nello Straniero senza nome l’arrivo del cowboy solitario nel villaggio punta soprattutto sull’aspetto visivo, come se uscisse dal nulla: «Inizialmente la sceneggiatura diceva che lo Straniero era il fratello dello sceriffo ucciso, ma io l’ho interpretato come se fosse una sorta di apparizione. Non se ne ha la certezza, ma si sa che il suo obiettivo è di far pagare alla gente del villaggio i propri peccati. Se arrivasse in città e dicesse immediatamente: ‘Sono il fratello dello sceriffo ucciso’ si tirerebbe subito la conclusione e si perderebbero l’alone di mistero e l’atmosfera enigmatica che lo circonda. Invece così, una volta che ha sconfitto il paese e umiliato gli abitanti, ci si chiede ‘Ma chi è? Perché lo fa?’».

Non è meno rivelatrice la discussione con il montatore a proposito del finale del Texano dagli occhi di ghiaccio: «Secondo lui dovevo letteralmente mostrare l’eroe che tornava dalla ragazza e dagli altri dopo il dialogo conclusivo con il Capo. Ma io ho risposto: ‘No, non serve far vedere che torna indietro. Lo vediamo cavalcare verso l’alba, e tanto ci basta’. E lui: ‘Sì, ma come faranno gli spettatori a sapere che torna dalla ragazza?’. Al che io ho detto: ‘Perché sono loro a volere assolutamente che torni da lei, e quindi sono loro che lo riporteranno là’. Sono l’immaginazione e la partecipazione del pubblico che fanno funzionare un film. Non c’è bisogno di dire tutto».

Subito dopo l’uscita dei tre film di Sergio Leone – negli Stati Uniti arrivano con grande successo solo nel ’67-’68 – fonda la Malpaso, la propria casa di produzione, che si appoggia prima alla Universal e poi alla Warner Bros. Negli anni dell’affermazione della Nuova Hollywood, che scompagina il sistema dei generi e le strutture narrative, rischia di sembrare anacronistico un regista come lui che si rifà a John Ford, Raoul Walsh, Howard Hawks. Ma il rapporto con il cinema classico non esclude la complessità delle strategie espressive in grado di affrontare le contraddizioni, le zone d’ombra, i nodi irrisolti, i punti di rottura.

Nonostante gli incassi stellari, per molto tempo non sembra trovare in patria quell’accoglienza che gli viene invece riservata all’estero: «Nel cinema americano mi sono sempre sentito un po’ ‘altrove’. Sin dal primo film che ho diretto, gli europei mi hanno incoraggiato molto più degli americani, che hanno fatto fatica a convincersi che potessi essere un regista perché avevano fatto altrettanta fatica a riconoscermi come attore». Sarà soltanto l’Oscar del 1993 per Gli spietati a mettere fine alla lunga rimozione: «È una favola che demistifica il West, contraddicendo completamente le leggende raccolte dal giornalista. Nel corso della storia cambiano tutti, ognuno dei personaggi comincia da una parte per finire da un’altra, proprio come nella vita reale impariamo ogni giorno qualcosa che modifica il nostro modo di vedere le cose. Qualcuno potrebbe pensare al trionfo della vendetta, ma nel profondo qui non esistono vincitori, in un modo o nell’altro perdono tutti qualche cosa, che sia una parte di sé oppure la vita».

Nel segno dell’ambiguità si apre la grande stagione dei capolavori di un cineasta maturo, che si concentra ogni volta sulla storia e sul modo più adatto per raccontarla. Da Un mondo perfetto («Butch non poteva essere del tutto un eroe. Ho cercato di mantenere il lui una certa durezza. Non volevo che avesse un atteggiamento paterno verso il bambino. Volevo che lo trattasse come trattava chiunque altro») a Mezzanotte nei giardini del bene e del male («Il forestiero non entra veramente in conflitto con gli abitanti della città, ma si pone delle domande, perché le persone con cui interagisce sono ambigue. Non sapremo mai la verità, e a me questa ambiguità piace»), da Mystic River («La città è un personaggio del film. Altrimenti avrei potuto girarlo alla vecchia maniera in uno studio di Toronto. Prima di incominciare le riprese, Tim Robbins, Sean Penn e Kevin Bacon hanno girato tutta Boston per assorbire l’atmosfera della città») a Million Dollar Baby («Hilary Swank, che interpreta Maggie, ha lavorato incessantemente, allenandosi quattro ore al giorno per quattro mesi: ha messo su dei bei muscoli e circa una decina di chili. È diventata il suo personaggio»).

Nella sua lunga carriera – arrivata al traguardo di trentasette titoli – Clint Eastwood in un modo o nell’altro riesce sempre a sorprenderci. Ogni nuovo film del novantenne regista fa discutere, anche quando non siamo d’accordo con lui, costretti comunque a ammirare lo straordinario professionismo della messinscena, a fare i conti ancora una volta con i personaggi e le storie del grande narratore. Sempre ossessionato dal ruolo centrale della visione, già nel 1987 aveva dichiarato: «Ho sempre avuto dell’ammirazione per i grandi narratori di storie, ma per molto tempo non ne ho fatto parte. Da bambino ero piuttosto introverso e avevo un approccio molto visivo alle cose. In classe, un semplice fruscio di foglie fuori dalla finestra era in grado di catapultarmi nei viaggi più inverosimili. È per questo motivo che penso di aver avuto molta fortuna a passare la maggior parte della mia vita da adulto a fare film, luoghi ultimi della visione e del suono. Ecco l’unica ragione che mi spinge a fare del cinema, forma d’arte che ho intenzione di praticare per il resto della mia vita».