La prima prova di resistenza alla volontà di Donald Trump di denunciare l’Accordo di Parigi sul clima e di far uscire gli Usa è riuscita. A Marrakech, nella seconda settimana di vertice della Cop22, alla presenza dei capi di stato e di governo, nessun paese ha seguito le indicazioni di Donald Trump, che insiste nel credere che il riscaldamento climatico sia un’invenzione per nuocere all’industria americana.

L’Australia ha ratificato l’Accordo, aggiungendosi ormai alla maggioranza di paesi, quasi un centinaio, favorevoli all’impegno contro il riscaldamento climatico. Gli Usa in versione Trump sono cioè un paese isolato. Non c’è stato il tanto temuto «effetto domino» in seguito al disimpegno annunciato da parte di Washington. «L’edificio tiene», ha sottolineato ieri Pascal Canfin, ex ministro, ora direttore generale del Wwf France. È un successo di tappa molto importante, per un accordo universale, che a differenza di quello di Kyoto ha l’ambizione di applicarsi a tutti i paesi del mondo: nessuno, per il momento, sembra avere l’intenzione di seguire Trump per evitare gli impegni della lotta al riscaldamento climatico. Il negoziatore cinese, Xie Zhenhua, rappresentante del primo paese con gli Usa per le emissioni di Co2, ha ricordato che «rispondere alla sfida climatica è una nostra responsabilità comune e condivisa». L’elezione di Trump aveva fatto temere il peggio: una corsa alla rinuncia, iniziata da Washington e seguita, con scuse economiche, da Cina, India e altri grandi inquinatori. Ma Trump si è sbagliato. Ormai l’economia ha intrapreso la strada del declino delle energie fossili. Stando alle affermazioni di Marrakech, si può dire che il punto di non ritorno è stato superato. Ieri, una dichiarazione di 360 società multinazionali, molte statunitensi – da Unilever agli hotel Hilton, Nike o DuPont – ha lanciato l’allerta e interpellato Trump sui rischi che una scelta a favore del passato possa incidere negativamente sulla «prosperità americana». Gli industriali temono l’incertezza che deriva dalle dichiarazioni demagogiche del prossimo presidente Usa, che ha affermato di voler rilanciare la produzione di carbone: anche al di là di ogni preoccupazione per il clima, gli investimenti sono troppo incerti in un settore che puo’ venire colpito da un rialzo del prezzo della tonnellata di Co2.

Il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, ha affermato che «la nostra speranza è che il presidente eletto Donald Trump ascolti e capisca la serietà e l’importanza dell’azione climatica» e che «capisca che le forze di mercato sono già all’opera su questo fronte». John Kerry, rappresentante dell’amministrazione Obama che ha ratificato l’Accordo, ha sostenuto che «non si può tornare indietro». Kerry ha aggiunto, prudente: «non posso speculare sulla politica che farà Trump ma mosso dire questo: alcune questioni prendono un aspetto molto diverso quando si è al potere rispetto alla campagna». François Hollande, venuto a Marrakech a difendere l’Accordo di Parigi ormai «irreversibile», ha invitato Trump a cambiare idea.

Paradossalmente, è la Ue che mostra segni di debolezza. Fino a qualche tempo fa, l’Unione europea era alla testa del movimento mondiale per la lotta ai gas effetto serra. Ma la Ue è in crisi. La Commissione europea deve svelare il 30 novembre il «pacchetto inverno» sull’energia pulita. In questo testo, secondo Euractiv, ci sarebbero sovvenzioni per il settore di energia fossile, con il rischio che la Polonia continui a costruire centrali a carbone, di cui è già ampiamente dipendente. Non c’è nessuna difesa per le rinnovabili, mentre resta l’obiettivo che rappresentino il 27% nella produzione di energia elettrica entro il 2030, ma senza ripartizione tra stati e con la soppressione dell’accesso prioritario ai mercati (perché i prezzi in calo hanno scottato i produttori).