Clima surreale ieri all’apertura del summit di due giorni tra Ue e paesi dei Balcani occidentali a Londra. Il governo britannico padrone di casa dell’iniziativa che solo poche ore prima aveva dichiarato di «volere dei Balcani occidentali prosperosi, stabili» e di voler «dimostrare il nostro interesse e coinvolgimento nella stabilità della regione al di là della nostra scelta di uscire dalla Ue», si scioglieva come neve al sole quando David Davis e Boris Johnson imbucavano la loro lettera di dimissioni al 10 di Downing Street.

Ma l’incidente che rischia di fare cadere il governo di Theresa May non è certo l’assillo vero del summit. Il vertice di Londra è già il quinto di quelli organizzati nella scia del «Processo di Berlino» lanciato da Angela Merkel nel 2014 «volto a migliorare nei rapporti nella regione e accelerare l’integrazione nella Ue dei paesi non ancora membri». Un processo che però in realtà ha fatto pochi passi in avanti e rischia di restare ancora a lungo un libro dei sogni.

L’attenzione delmeeting resta concentrata sui paesi non ancora aderenti alla Ue: Albania, Bosnia-Erzagovina, Macedonia, Kosovo, Montenegro e Serbia. E non solo perché molti paesi sono ben lontani dall’aver implementato quelle «riforme» richieste dalla Troika di Bruxelles. E neppure perché per usare un eufemismo alcune di queste democrazie risultano assai «fragili» visto che in Europa esistono realtà come quella della Polonia di Tusk o l’Ungheria di Orbán che di insufficienze in questo campo ne hanno parecchie. Ma soprattutto perché restano aperti i contenziosi territoriali e politici determinatisi con la frammentazione della Jugoslavia, con tanto di responsabilità della nascente Unione europea. Non è un caso che tra pochi giorni a Bruxelles verrà probabilmente approvato l’ingresso nella Nato della Macedonia – appena dopo il Montenegro che già è entrato nel 2017 – non solo malgrado la contrarietà della Russia a tale ipotesi, ma ben prima della adesione del paese alla Ue che resta al di là da venire (Junker ha parlato di possibile adesione nel 2025), come anelato proprio ieri a Londra dal ministro degli esteri macedone Nikola Dimitrov («è ora, non abbiamo più contenziosi con la Grecia dal 2008»).

Di quel «passato che non passa», il problema più spinoso sembra restare quello del Kosovo. E non solo perché cinque Stati membri della Ue (Slovacchia, Cipro, Romania, Grecia e Spagna) non riconoscono l’enclave come uno stato indipendente, ma in quanto le forti tensioni interetniche e la natura malavitosa dell’indipendenza autoproclamata. rendono l’obiettivo per ora solo una mera dichiarazione di intenti. Il governo di Pristina non può infatti sperare di iniziare negoziati senza normalizzare i propri rapporti con la Serbia. Uno status quo che rischia di mantenersi a lungo anche se recentemente il presidente serbo Aleksandar Vucic ha sostenuto in una intervista al Times «di essere ossessionato dal Kovovo e di voler cercar di trovare una soluzione».

E mentre Bruxelles pensa al farsi, spuntano nella martoriata regione altri attori come Russia, Turchia e Cina. Particolarmente serio sembra essere l’interessamento cinese ai Balcani occidentali. In previsione del summit di Londra il primo ministro cinese Li Keqiang ha dichiarato di voler riprodurre in tutta la penisola balcanica lo schema legislativo degli accordi economici già sottoscritti con la Bulgaria, paese candidato a diventare anche il suo «ambasciatore europeo». L’Istituto internazionale economico di Vienna ha calcolato che gli investimenti cinesi potrebbe condurre a un boom economico della regione con aumenti del Pil del 10% per Montenegro e Bosnia Erzegovina e del 7% per la Serbia, del 2% per la Macedonia.