L’intesa, sulla carta, rappresenta una svolta che la retorica in mondo visione ha già salutato come epocale. Abbiamo sentito dire che le firme dei 170 paesi che all’Onu si impegnano a far entrare in vigore l’accordo globale sul clima di Parigi potrebbero essere un risultato storico (obiettivo: limitare la temperatura media globale entro i 2 gradi centigradi rispetto ai livelli pre-industriali). Sicuramente c’è del vero. Ma per passare dalle parole ai fatti bisogna fare in fretta perché il tempo è già scaduto. Di più, subito. E qui rischiano di essere problemi grossi proprio per il vecchio continente, disarticolato e litigioso con le sue 28 membra stanche (spesso in disaccordo tra loro) che saranno chiamate a ratificare l’accordo sulla base di intese comuni e politiche condivise.

Tanto che, a poche ore dalla cerimonia ufficiale della firma di New York, gli osservatori sanno bene che mentre Usa, Cina e India stanno correndo verso l’obiettivo l’anello debole della catena è proprio l’Europa, ancora ferma in attesa di definire i target nazionali di riduzione della C02 previsti per 2030. Il processo “prenderà del tempo”, ha ammesso il commissario europeo al Clima Miguel Arias Canete durante il discorso alle nazioni unite.

Perché non rimanga lettera morta, l’accordo mondiale per la riduzione di gas serra deve essere ratificato da 55 paesi che coprono almeno il 55% delle emissioni globali. E non è improbabile che questo possa avvenire anche senza il contributo dei 28 paesi europei, un fatto clamoroso che potrebbe escludere l’Europa dalle prime decisioni fondamentali per abbattere gli inquinanti e invertire la rotta delle politiche energetiche. “Dopo Parigi tutto il mondo si sta muovendo tranne l’Ue”, ha detto Bas Eickhout, vicepresidente del gruppo dei Verdi europei.

Usa e Cina (il paese che più di tutti sta investendo sulle energie pulite) hanno dichiarato di voler ratificare l’accordo entro la fine di quest’anno, forse già a settembre quando si terrà l’assemblea generale dell’Onu. Se così fosse, è la matematica a dire che l’Europa potrebbe diventare irrilevante anche sul piano della lotta al riscaldamento globale. “Questi due paesi – ha precisato Eickhout – insieme contano circa il 40% delle emissioni, che con l’India diventano il 45%. Se si dovesse aggiungere anche il Giappone, dietro pressione degli Usa, l’entrata in vigore nel 2016 o 2017 diventa probabile senza l’Unione europea”. Eppure Giovanni La Via (Ppe), presidente della Commissione ambiente dell’Europarlamento, non sembra molto preoccupato: “Siamo 28 paesi, è normale che il processo di ratifica sia più complesso, non è una gara e quello che conta è l’obiettivo”.

L’opinione comune, al di là dei riflessi appannati dell’Europa, è che l’accordo di Parigi dovrà ancora superare molti ostacoli prima di diventare operativo, e non solo in Europa (l’organizzazione mondiale marittima e quella dell’aviazione civile, per esempio, non hanno ancora stabilito misure per abbattere le emissioni). E che ormai il tempo è scaduto. Il “rapidamente” non basta più, spiega il Wwf in una nota, perché oltre al trattato di Parigi “anche le temperature planetarie e gli impatti climatici stanno già scrivendo un pezzo di storia del pianeta”. E questa è cronaca: è appena trascorso anche il marzo più caldo di sempre (dopo undici di mesi di record analoghi), l’Africa orientale e meridionale è colpita da una delle peggiori siccità di sempre, la quasi totalità della barriera corallina ormai è sbiancata per le acque calde e in Groenlandia ci sono temperature record attorno ai 20 gradi sopra la media. Ce n’è di che per convocare un bel vertice europeo?