Dopo anni di calo costante dei tassi di insicurezza alimentare globale, la tendenza negli ultimi anni è cambiata. E ora la pandemia di Covid-19 sta peggiorando le cose. Ma il coronavirus non è l’unica causa della fame. È complice anche l’emergenza climatica. Quest’anno il Programma alimentare mondiale (Pam) è stato premiato con il Nobel per la pace per aver combattuto l’impennata della fame nel mondo. Abbiamo parlato con Silvia Caruso, da poco a Roma come   e con una grande esperienza sul campo come direttrice Pam in Mali, nella Repubblica Democratica del Congo, in Mozambico e in Madagascar.

Quali sono le implicazioni della pandemia sull’insicurezza alimentare mondiale?

L’impatto della Covid-19 purtroppo è stata estremamente distruttiva per la fame nel mondo. Prima del coronavirus si stimava che ci fossero circa 138 milioni di persone in grave insicurezza alimentare. Ora si prevede che questo numero raggiungerà i 270 milioni a causa della Covid-19. L’aumento è elevatissimo, circa l’80%. L’impatto della Covid-19 sta sconvolgendo la catena di approvvigionamento e ha un impatto sulle rimesse perché le persone, a causa della recessione globale, stanno perdendo il lavoro, e poi sta anche avendo un impatto sui prezzi e quindi sull’accesso al cibo dato che il personale del settore alimentare impiega più tempo e più sforzi per entrare nei paesi e quindi i prezzi stanno aumentando. Quindi i numeri, purtroppo, raccontano una storia piuttosto preoccupante.

I paesi più vulnerabili agli impatti della crisi climatica sono anche molto vulnerabili alle carestie. È possibile affrontare la fame senza affrontare il cambiamento climatico?

Come Pam, stiamo affrontando la tripla C: il clima, il conflitto, e ora la Covid-19. La maggior parte delle popolazioni che stiamo assistendo si trova in paesi colpiti da conflitti. Ma oltre la metà di loro si trova anche in paesi che subiscono gli effetti del cambiamento climatico. Questi effetti combinati stanno creando un’enorme sfida. Sicuramente il cambiamento climatico è uno dei motori dell’insicurezza alimentare. Affrontare il cambiamento climatico è essenziale. Coloro che vivono di risorse naturali, della propria terra, dei pascoli e dell’agricoltura…La base di risorse si riduce e viene colpita perché ci sono più fenomeni come siccità estrema o inondazioni e queste persone sono aggressivamente impoverite e questo causa migrazioni “di disagio” in aree che sono più favorevoli alla pace o dove quelle risorse, acqua e terra, sono ancora disponibili. Questo, a sua volta, crea tensioni tra i gruppi. Quindi sicuramente il cambiamento climatico e la fame hanno un rapporto molto stretto. Purtroppo sì, bisogna affrontare l’uno per risolvere anche l’altro.

 

Vigile del fuoco in azione nel Sud della California. @LaPresse

 

La crisi climatica non riguarda solo la produzione di cibo, ma anche l’accesso al cibo e la nutrizione. È così?

Sì, è assolutamente corretto. Influisce sulla nutrizione, prima di tutto, perché quando le persone sono povere massimizzano il loro apporto calorico, ma non necessariamente il loro apporto nutrizionale. Le persone in povertà hanno diete molto sbilanciate. Man mano che il reddito diminuisce, si acquistano gli alimenti che sono meno costosi ma gli alimenti che sono meno costosi non sono sempre i più nutrienti. Quindi le due cose vanno, purtroppo, di pari passo. Penso che sia interessante guardare indietro e vedere che questo non è vero solo oggi. È stato così nel corso della storia, la malnutrizione cronica ha colpito la popolazione rurale, anche da dove vengo io, nel Sud Italia, per molti, molti decenni.

È stato sottolineato in occasione del Premio Nobel per la pace al Pam che il legame tra fame e conflitto è un “circolo vizioso”: il conflitto può causare insicurezza alimentare ma è vero anche il contrario. Inoltre, gli impatti della crisi climatica possono anche essere la causa di carestia, e quindi di migrazioni forzate e conflitti. Può spiegare le dinamiche tra queste relazioni causali?

Credo che il Sahel sia davvero l’esempio di come queste diverse dinamiche interagiscono, in particolare il Sahel centrale, il Mali, alcune zone del nord del Burkina, il Niger, zone che hanno progressivamente sofferto per i cambiamenti climatici, l’aumento delle temperature, la siccità ricorrente. Quando c’è siccità la terra diventa molto, molto dura e poi quando arrivano le piogge, oggi, spesso, molto più intense di prima, ci sono le inondazioni. Questo ha ovviamente causato la distruzione dei mezzi di sussistenza. Le persone che vivono del loro bestiame devono portarlo in zone più lontane perché l’acqua non è più disponibile.

E quando si spostano entrano in zone abitate da altre comunità. E questo crea tensioni e conflitti su diversi livelli: tra comunità, tra piccoli gruppi e a livello regionale. Si può osservare molto bene l’interazione tra il cambiamento climatico e i conflitti e poi, naturalmente, oggi, come abbiamo detto, la questione della pandemia aggiunge un ulteriore livello di complessità. Lo sfollamento in due anni nel Sahel è passato da 700.000 persone a oltre 1,7 milioni. Questo è il cambiamento climatico. Inoltre gli estremisti fanno leva sulle divisioni tra i gruppi. Tutto si sta combinando ora in una situazione esplosiva che sta creando una grande crisi nel Sahel dove abbiamo visto il numero di persone che hanno bisogno di assistenza umanitaria salire a più di 13 milioni di persone.

L’accesso ridotto o limitato alle risorse naturali spinge le comunità e le popolazioni a dover condividere le stesse insufficienti risorse…

Sì, quando la terra è sempre meno produttiva, è degradata, non genera abbastanza cibo per tutti. E in questo contesto il cibo è anche un reddito. La maggior parte delle persone in queste regioni non produce solo per sfamarsi ma per commerciare e vendere al mercato. Ridurre il reddito significa avere una ridotta capacità di accesso agli aiuti, una ridotta capacità di educare i propri figli e molte altre cose. È il loro intero sostentamento a risentirne.

 

Silvia Caruso, rappresentante del Pam e l’ambasciatore francese in Mali

 

Ha parlato del Sahel, ci sono altre regioni del mondo in cui sta accadendo tutto questo?

Penso che possiamo vedere queste dinamiche in molte altre parti del mondo. Oltre che nel Sahel, ho lavorato in Mozambico, che è sempre stato soggetto a eventi meteorologici estremi. E questi eventi sono diventati molto vicini tra loro e di maggiore intensità. Così intere aree che erano produttive ora sono abitate da persone incapaci di andare avanti. Allo stesso tempo, ci sono gruppi estremisti nel nord del paese che, anche in questo caso, fanno leva sulle tensioni esistenti tra le comunità e gli sfollati.

Ho lavorato soprattutto in Africa, quindi i miei esempi sono per lo più africani perché preferisco parlare dei luoghi in cui sono stata. Ma penso che si possano vedere casi simili in Asia o anche in paesi come lo Yemen che ha sempre avuto problemi di accesso alle risorse naturali che poi si trasformano in acute scissioni tra le comunità per poi esplodere in conflitti. In America Latina, nei cosiddetti corridoi aridi, i periodi di siccità si avvicinano e si intensificano. E tutte quelle popolazioni che vivono nei corridoi aridi sono sempre meno in grado di ricostruire il loro sostentamento senza sostegno.

Anche se la comunità medica è stata spesso riluttante ad interpretare il conflitto in relazione alla salute, alcuni studiosi hanno inquadrato il conflitto proprio come un problema di salute. Nel contesto dell’emergenza climatica, per esempio, sembra che il pubblico sia più motivato a mitigare il cambiamento climatico quando viene inquadrato come un problema di salute. Cosa ne pensa? Quanto è importante sottolineare un’associazione tra salute e conflitto?

Questa è una domanda davvero interessante. Dalla nostra prospettiva sicuramente clima e nutrizione, e quindi salute, hanno un rapporto molto stretto e diretto…ma la nutrizione non è solo salute, è anche un problema di accesso ai prodotti giusti, è anche una questione di reddito e anche di prevenzione. Se penso che inquadrare il problemi in termini di salute rende più efficace persuadere gli stakeholder? Non sarei in grado di giudicare, ma penso che il cambiamento climatico oggi stia minacciando l’ordine globale. Ci sono effetti a catena non solo sulle popolazioni direttamente colpite.

Il problema è anche come queste popolazioni possono far fronte a tali effetti e come questo crea altre tensioni. Ancora una volta, mi permetta l’esempio del Sahel. Le migrazioni stagionali, che un tempo erano un tipico meccanismo di coping per la popolazione del Sahel, sono diventate oggi migrazioni permanenti…Chi migra non è in grado di tornare alle proprie famiglie e di coltivare la propria terra. Chi migra deve trasferirsi definitivamente in altri paesi o in altre città per potersi procurare un reddito. E questo significa pressione su quelle economie vicine, che al momento, come ho detto, sono in recessione. Penso che il cambiamento climatico sia una minaccia che riguarda tutti i settori.

 

La siccità ha prodotto una crisi alimentare molto pesante lo scorso febbraio in Zimbabwe. @LaPresse

 

Gli aiuti alimentari possono avere effetti indesiderati?

Sicuramente. Penso che ci sia una lunga letteratura intorno a questo, non solo del rischio di effetti indesiderati dell’assistenza alimentare ma dell’assistenza umanitaria in generale. Ci sono tutta una serie di parametri nel Pam che sono necessari per evitare questi effetti indesiderati; i famosi principi del “non nuocere” (dall’inglese no harm principles). La carestia può essere un’arma di guerra quindi c’è il rischio che qualsiasi assistenza umanitaria venga utilizzata in modo improprio.

Ma è per questo che c’è una pre-analisi molto accurata da parte di tutti gli attori umanitari nella valutazione e nel dialogo con le comunità… Per lungo tempo c’è stato un dialogo un po’ a senso unico, ma in maniera sempre più sistematica facciamo in modo che le comunità possano dare un feedback a coloro che forniscono assistenza. Quindi questi sono tutti meccanismi che, a livello globale, abbiamo messo in atto per evitare qualsiasi forma di effetti indesiderati.

 

Ci sono state critiche rivolte al Pam che i metodi di approvvigionamento alimentare dell’organizzazione ostacolano la sopravvivenza dei mercati locali perché il Pam compra la maggior parte delle forniture sul mercato globale. C’è stata una conversazione al riguardo all’interno dell’organizzazione?

Sì c’è stata. Trenta anni fa il Pam era diverso da quello attuale. Oggi il Pam acquista a livello locale, per quanto possibile. In effetti, prima ancora, la domanda che ci poniamo è se il mercato locale ha la capacità di fornitura. E in tal caso preferiamo utilizzare contanti o buoni che di fatto hanno il doppio vantaggio di aumentare l’accesso economico delle persone, ma allo stesso tempo “iniettano” il potere d’acquisto direttamente nell’economia locale…E se il locale non funziona, c’è sempre la dimensione regionale degli acquisti…Onestamente, oggi vedo un enorme riconoscimento dell’importanza dei mercati locali. E molti dei programmi sono orientati a far leva sui mercati locali per aiutarli a crescere e per dare spazio agli agricoltori e ai produttori locali.

Com’è cambiato nella sua esperienza il lavoro sul campo dall’inizio della pandemia?

La pandemia ha messo un’enorme quantità di vincoli aggiuntivi. Oltre naturalmente allo stress personale, c’era molta preoccupazione per come poter continuare a lavorare in un ambiente dove bisogna proteggere sé stessi, il personale e le persone che assistiamo. Quindi abbiamo dovuto riadattare molto rapidamente il modo in cui stavamo operando…Abbiamo dovuto ripensare l’intero processo. Dovevamo fare in modo che non ci fosse un assembramento, che le persone fossero distanziate, che ci fossero barriere per il controllo della temperatura, per il lavaggio delle mani. L’intera riorganizzazione ha richiesto molta energia da parte di tutti. Tutti noi collettivamente abbiamo fatto un enorme sforzo per continuare l’assistenza. Penso che ci siamo riusciti, nonostante le sfide…