La giornata di oggi, comunque andrà, sarà uno spartiacque nella vicenda marò in India. La Corte suprema, a sorpresa, ha calendarizzato un’udienza circa le due istanze avanzate rispettivamente dai fucilieri Massimiliano Latorre e Salvatore Girone relative ai termini della libertà provvisoria. I giudici dovranno pronunciarsi rispetto alla doppia richiesta di rilassamento del regime di libertà condizionata. Rispettivamente, i legali dei due sottufficiali di Marina chiederanno un’estensione di altri quattro mesi della licenza di Latorre, in Italia dallo scorso 13 settembre per la riabilitazione dopo l’ictus che lo ha colpito qui a New Delhi. Latorre, secondo i termini del rientro concordati con la Corte suprema, dovrebbe fare ritorno in India entro il prossimo 13 gennaio.

Per Girone, invece, la richiesta è quella di poter rientrare in Italia per un periodo della durata di tre mesi, comprese le vacanze natalizie. Stando a quanto trapelato sulla stampa italiana, le motivazioni sarebbero ancora una volta di carattere «umanitario». Girone non vede i figli da marzo e vorrebbe poter passare il Natale con loro.

Il procedimento penale nei confronti dei due fucilieri formalmente accusati dell’omicidio dei due pescatori indiani Ajesh Binki e Valentine Jelastine è di fatto fermo al palo da mesi: l’Italia ha contestato il diritto della polizia federale antiterrorismo indiana National Investigation Agency (Nia) di istruire il caso, nodo ancora non sciolto dalle autorità giuridiche indiane. Inoltre, parte della strategia dell’amministrazione Renzi rispetto a un caso che si protrae ormai da oltre mille giorni, Roma avrebbe pronta un’istanza per adire al giudizio di un tribunale internazionale – non è ancora chiaro quale – formalizzando la contestazione della giurisdizione esclusiva che l’India ha sempre difeso. La lunghezza di questa pratica – per gli esperti, minimo tre anni – ne fanno una extrema ratio, un «jolly» nel cassetto della nostra diplomazia. I continui rinvii e i tempi biblici della giustizia indiana imbarazzano Delhi e frustrano Roma; i ministri di entrambi i paesi sanno bene che il modo nel quale si arriverà alla conclusione di questa diatriba significherà molto per le rispettive immagini.

Da un lato, Narendra Modi non si è mai speso in prima persona sul caso dei marò, mettendosi al riparo da critiche strumentali dietro al principio di indipendenza dei poteri dello Stato: è una questione legale e se ne occupano, quindi, i giudici. Matteo Renzi, dall’altro, ha profuso un impegno mediatico a fasi alterne, prediligendo una strategia del «silenzio», in netto contrasto con la vocalità a mezzo stampa subìta da tutti i governi precedenti, costretti a rispondere delle intemperanze di una destra italica che ha trasformato un contenzioso legale internazionale in una battaglia «identitaria». Lo stesso Paolo Gentiloni, all’indomani della nomina a ministro degli Esteri, ha sintetizzato il suo approccio all’affare marò con un «pensarci sempre, parlarne il meno possibile».

La palla passa di nuovo alla Corte suprema indiana, chiamata a un nuovo gesto di clemenza che distenderebbe i rapporti Roma–New Delhi, permettendo agli azzeccagarbugli indiani e italiani di dirimere la questione della giurisdizione senza dover fare i conti con la permanenza coatta dei due imputati in territorio straniero.