La letteratura tedesca contemporanea è un territorio di sporadiche apparizioni felici. Sempre in cerca del grande capolavoro e di un nuovo romanziere geniale, il sistema culturale sforna premi con invidiabile continuità e quasi altrettanta sfortuna. Ogni anno decreta la nascita del nuovo erede della grande tradizione e ogni anno si accorge del suo abbaglio.

Se non fosse per alcuni narratori notevoli e ormai non più giovani, quasi tutti di origine austriaca, come Christoph Ransmayr, Robert Menasse, ovviamente Peter Handke o, tra i più giovani, Daniel Kehlmann, non sarebbero molti i nomi di risonanza internazionale da esibire e quei pochi sono, spesso, fulminei autori di un unico romanzo notevole e subito celebrato, il cui seguito non è all’altezza dell’esordio.
Ciò che distingue Clemens Meyer dalla maggior parte dei suoi coetanei è invece la costante qualità dei romanzi e racconti, che pubblica con ritmo non frenetico e senza mai cedere alla tentazione del manierismo.

Meyer è infatti il solo, forse, fra i giovani autori della generazione nata negli anni Settanta, che abbia saputo rinnovare la grande tradizione tedesca conferendole tratti nuovi: le sue storie sembrano strappate alla strada e delineano squarci di vita a volte durissimi; sembrano sfiorare il naturalismo, ma si aprono a voli surreali e, a tratti, metafisici che richiamano la duplicità costitutiva di narratori grandissimi, da E.T.A. Hoffmann a Alfred Döblin, da Thomas Mann a un autore come Wolfgang Hilbig, ancora sconosciuto in Italia, che Meyer considera uno dei suoi più grandi modelli. Meyer stesso si definisce, non per nulla, uno scrittore «romantico».

Al di là delle apparenze che, certamente, hanno avuto un ruolo significativo nel suo successo, i suoi temi sono il rapporto doloroso e mai pacificato con la storia, la vita quotidiana come tradimento del sogno, la morte e l’eros come gli estremi entro cui è compreso il casuale incontro con i traumi della realtà. Nella raccolta di racconti pubblicata più di recente in Italia, Il silenzio dei satelliti (Keller, 2019) come pure in quella ancora non tradotta da cui è stato tratto il fortunato film Valzer fra gli scaffali (Die Nacht, die Lichter), Meyer racconta storie di straordinaria quotidianità in cui la poesia riempie i vuoti del buio, della solitudine e del silenzio.

La vena romantica si rivela così nel contrasto continuo fra la cupezza degli ambienti metropolitani drammaticamente poveri e desolati, in cui il senso comune europeo intriso di leggende sull’opulenza della società tedesca fatica a riconoscere la rappresentazione brutalmente realistica di una Germania minore popolata di disperati, emarginati e reietti, e la luminosità di visioni nelle quali balugina una possibilità sfuggente benché nitida e, per qualche istante, quasi afferrabile.

In questo modo Meyer ha creato un universo poetico di simboli contemporanei: marciapiedi, barriere divisorie, rifiuti, edifici-dormitorio, corsie di supermercato che improvvisamente diventano porte d’accesso aperte su una via d’uscita dal quotidiano nulla della vita vera.

 

Qui l’intervista di Elisabeth Galvan a Clemens Meyer
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