Claudio Lolli ha scritto una pagina indelebile nel contesto di una canzone d’autore che travalica l’angusto perimetro della provincia per sublimarsi nel tessuto della grande letteratura. Nessuna scuola – stiamo parlando qui di quella «bolognese» – nasce con finalità didattiche ma sono essi stessi, i protagonisti, ad indicare con i loro versi modi comportamentali. Le tematiche dei suoi componimenti si rifacevano in qualche modo all’esistenzialismo, essendo comunque onnipresente nella sua opera quella critica marxista cui è informato il peregrinare dell’uomo, parlandone in termini di morte, di sofferenza, di prospettive (da dove veniamo, dove siamo diretti).
È attraverso il padre inteso come medium – un uomo descritto come stupidamente severo e, al contempo,estremamente fragile – che Lolli muove la sua critica feroce a una borghesia bolsa e meschina in un mirabile ritratto con Vecchia piccola borghesia. Guccini, che lo scoprì, si definisce oggi al paragone un conservatore; ad avviso di chi scrive Lolli è artisticamente superiore a Dalla che ricordava spesso nei suoi discorsi con bonomia ma senza risparmiarsi strali ironici. Gli è che, vivendo nella stessa città, capitava spesso che si incontrassero e Dalla gli ripeteva sempre: «Claudione, prima o poi io e te dobbiamo pur lavorare insieme…» e «Claudione» sottolineava una frase sempre uguale, quasi un mantra, con un sorriso sardonico. Non lavorarono mai insieme.
Frequentava la storica Osteria delle Dame allorché fu scoperto, appunto, da Guccini e sarà Marcello Minerbi dei Marcellos Ferial – lo stesso che aveva «allevato» un certo Luigi Tenco – l’arrangiatore di Aspettando Godot che lo accostò subito ai più famosi colleghi d’oltralpe.
Lolli va considerato, a Bologna, una sorta di contraltare di una figura come quella di Pupi Avati: l’uno fa parte da subito del Movimento l’altro, in un certo senso, della restaurazione. Non stiamo paragonando stilemi artistici ovviamente ma i rispettivi comportamenti di due artisti nei confronti della realtà nella quale si trovavano ad operare: aperto ai venti liberi del mondo l’uno, chiuso l’altro in un solipsismo che lo voleva al centro di un universo circoscritto, refrattario alle sollecitazioni degli accadimenti politici e delle rivoluzioni sociali. Ferocemente anticlericale, mai incline al compromesso, intellettuale engagé seppure disancorato da logiche di partito, i suoi temi si ricollegano a un disagio esistenziale che si riverberava in lucide e taglienti descrizioni dell’uomo costretto nel piattume di giorni tutti uguali compressi in una quotidianità sfatta e priva di orizzonti. Traspare dai suoi versi una rabbia incontenibile che ci riporta a I pugni in tasca di Bellocchio in una reiterata disarmonia con il lessico familiare che non trovava interlocutori. Il sax di Nicola Alesini regalò nuove sonorità all’ultima parte della sua produzione.
NOSTALGIA
Era stato professore di liceo e il suo insegnamento primo era quello di una dignità paritetica tra docente e discente, curiosissimo delle opinioni degli altri e mai invadente dell’altrui libertà. Moltissimi suoi alunni lo ricordano oggi con struggente nostalgia memori di un’epoca aurea dove, più che in un’aula, ci si assiepava intorno al professore come nella geometria del gymnasion.
Autore di romanzi, ce n’è uno singolare, concepito in forma di epistola, Lettere matrimoniali, in cui si riconciliava con la famiglia dopo i guasti che Cooper avrebbe descritto negli anni a venire, esprimendo una passione incontenibile e diuturna per la moglie Marina, un sentimento espresso senza falsi pudori né pruderie nella descrizione di nudità disarmate, del sesso a volte felice a volte interdetto dimostrando come, partendo dalla morte della famiglia, si poteva arrivare alle voglie e agli spasimi di una passione divorante che quella donna, lei sola, evocava e rendeva a tratti obnubilati al di là del tempo che scorre impietoso o della pelle che raggrinzisce.
Non abbiamo lo spazio per addentrarci in una biografia ragionata ma ci pare di poter dire che Ho visto anche degli zingari felici irruppe nel panorama culturale come un pugno alla bocca dello stomaco, un lavoro colto e complesso che adombrava, pure, la strage dell’Italicus , e l’idea che la felicità non fosse appannaggio solo dei belli e dei ricchi ma di chi se ne appropriava cercando con disperazione e matta bestialità un approdo sicuro nei marosi di una società classista.
TARGA TENCO
L’anno scorso venne insignito della Targa Tenco per Il grande freddo, fuori tempo massimo a nostro avviso. Premio che avrebbe meritato molto tempo prima e che veniva conferito invece, ça va sans dire, dopo che Enrico De Angelis aveva lasciato il timone. Raccontava Lolli, sempre con lo stesso disincanto e la stessa ironia, come De Angelis dimostrasse di non conoscere neanche un verso della sua produzione, come lui glielo facesse notare, sempre col modo garbato e l’eleganza che lo contraddistinguevano e come De Angelis si infuriasse e dichiarasse davanti a testimoni che, finché fosse rimasto direttore del Premio, Lolli non si sarebbe più prodotto al Tenco.
C’eravamo visti ad agosto dello scorso anno per definire un progetto biografico , verosimilmente sapeva che la vecchia ghignante s’apprestava a gran passi. Costretto all’uso delle stampelle per le conseguenze di una caduta rovinosa, ricordo le movenze da circense per confezionare un caffè al suo ospite: le stampelle poggiate una dopo l’altra, in perfetto parallelo, ad una credenza, il suo poggiarsi con la parte alta del bacino alla cucina e poi le mani che in rapida successione armeggiavano con miscela, moka, tazzina, et voilà. Un ospite che aveva arrancato per le interminabili scale della sua casa in via Indipendenza ed era arrivato all’uscio con la lingua che toccava terra e lui che, in modo fraternamente canzonatorio, disse che gli avrebbe fatto fare una copia della chiave per l’ascensore.
Il dolore per la perdita è ottundente, il vuoto che lascia ci rende frastornati. Ci vuol altro che l’elaborazione del lutto. Scrive Massimo Recalcati: «Non è vero che attraverso il lavoro (l’elaborazione, ndr) del lutto possiamo liberarci – come credeva invece Freud – dal dolore della perdita. Camminiamo nel mondo sempre circondati dalle assenze che hanno segnato la nostra vita e che continuano ad essere presenti tra noi. Il lavoro del lutto non ci libera da queste assenze sempre presenti, ma ci permette di continuare a vivere, di resistere alla tentazione di scomparire insieme a chi abbiamo perduto».
Cantò un Gramsci compagno di strada e fratello fragile, chiamandolo «quello lì». È stato un folletto geniale, mai ovvio né scontato, un titano la cui complessità è in parte ancora da scandagliare.
Solo quando muoiono i «vecchi», i vecchi intendo che sopirono dei pargoli il balbettio notturno, solo allora impariamo.