A partire dal 1895 fino al 1909, Paul Claudel è viceconsole e poi console in Cina meridionale. In questo torno di tempo – in cui si alternano viaggi a Shangai, Hanku e in Giappone – il diplomatico francese compone i poemetti di marca simbolista compresi in Conoscenza dell’Est Frammenti in prosa dall’Estremo Oriente (1895-1905), riproposti ora da L’Harmattan Italia (traduzione, note e saggio introduttivo di Simonetta Valenti, pp. 202, € 24,00). Siamo nel momento culminante della vita di Claudel: a Notre-Dame nella famosa notte di Natale del 1886, al Dio cattolico che gli si rivelava durante il canto dei Vespri, aveva detto «Je Crus», ma erano serviti altri quattro anni (laceranti, battaglieri) per la conversione definitiva. Il ritiro nel convento di Ligugé non aveva prodotto gli effetti sperati e il poeta era partito, appunto, verso l’Asia dove aveva incontrato in nave l’amata Rosalie Vetch, l’Ysé del Partage de Midi (Crisi di Mezzogiorno) e ancor di più la Doña Prouhèze della Scarpina di raso.
Nella burrascosa fine del legame e nell’incontro con l’alterità assoluta rappresentata dalla donna e dal sinuoso mondo orientale, Claudel è innanzitutto alla ricerca di uno stile: ecco che l’incisione lirica rimbaldiana e mallarmeana si innesta nello studio del pensiero di Tommaso d’Aquino, attuando una sintesi di motivi psicologici, echi fonetici e generi letterari. Si va dal pezzo poetico (la poésie pure, distillata, concentrata) al bozzetto d’occasione, dalla pagina di diario alla meditazione teologica. Ogni riga è un affermare e confermare le ragioni della fede, la sua inscalfibile «posizione», come ha osservato Carlo Bo. «Il Divino, l’Eterno – scrive Valenti nella ben documentata introduzione –, di cui l’immenso Oceano è testimonianza ed emanazione, non è dunque solo un tenero abbraccio che nutre e protegge, ma anche purezza originaria che, stringendo a sé la sua creatura, la libera da ogni macchia, la assolve da ogni peccato, la giustifica, rendendola alla sua condizione di primaria figliolanza». Un’immacolatezza materna di salvaguardia, sinonimo di letteratura salmodica (contemporanea è la stesura delle Cinque grandi Odi). Molto spazio è dato al paesaggio cinese e giapponese, descritto secondo l’«associazione tematica» à la Baudelaire: ad esempio La palma da cocco, «l’insegna del trionfo, lei che, aerea, amplificazione della cima, slanciandosi, allargandosi nella luce ove ondeggia, soccombe al peso della sua libertà»; oppure «il sentiero lastricato», che «attraversa le risaie e gli aranceti, – i villaggi sorvegliati a un’uscita dal grande banano (il Padre, cui tutti i bimbi del paese sono dati in adozione)». «È il momento – prosegue in L’entrata della Terra – della solenne Introduzione, l’ora in cui il Sole oltrepassa la soglia della Terra». L’Est coincide, per Claudel, con questa sorgività dell’esistente che ha il potere di mostrare la novità dello spirito e della grazia, e dichiarare a gran voce, non senza un filo di lieto sgomento: «Tutto è mistero».
La derivazione, La pioggia, Il fiume divengono così la «religione del segno», simbolo vivo e tremolante di una realtà amplificata, exotopica e transgrediente per dirla con Bachtin, ossia rivolta a un irripetibile oltrepassarsi. Il tratto più bello della raccolta è probabilmente in Sogni, che di necessità qui si registra, e funge da mise en abyme di tutta l’opera claudeliana: «E mi rivedo nel vento alla più alta forca del vecchio albero, bambino dondolato tra le mele. Di lassù, come un dio sul proprio stelo, spettatore del teatro del mondo, studio attentamente il rilievo e la conformazione della terra, la disposizione dei pendii e dei piani; con l’occhio fisso del corvo, scruto la campagna dispiegata sotto il mio trespolo, seguo con lo sguardo la strada sulla cresta delle colline, si perde infine nella foresta. Nulla è perduto per me: la direzione dei fiumi, la qualità dell’ombra e della luce, il progredire dei lavori agricoli, quella vettura che avanza sul sentiero, i colpi di fucile dei cacciatori. Non vi è alcun bisogno di un diario in cui leggo solo il passato; basta soltanto che salga su quel ramo, perché, superato il muro, veda davanti a me tutto il presente. La luna si leva; rivolgo il volto verso di lei, immerso in questa casa di frutti. Rimango immobile e di tanto in tanto, una mela cade dall’albero, come un pensiero grave e maturo». Memoria involontaria proustiana ante litteram (o nervaliana post litteram)? No, qualcosa di differente. Un’eterna contingenza, una dimensione invisibile squadernata, la sainte réalité che Claudel intravide in Dante, quando compose l’Ode jubilaire pour le 600e anniversaire de la mort.
Siamo già nel pieno del «théâtre du monde» tipico della grande stagione drammaturgica che prelude a L’annunzio a Maria (1912) e a La scarpina di raso (1929). Siamo cioè nel campo più autentico della joie, non già emozione scremata e subìta dall’uomo, ma itinerario cognitivo, integrità ontologica. «Esperienza anzitutto sensoriale – nota ancora Valenti – e poi intellettiva: una vera esperienza di “co-naissance”, poiché per l’autore di Connaissance de l’Est, che sotto tale profilo si avvicina ai medievali, l’essere umano conosce sempre con i sensi e con l’intelligenza, stabilendo rapporti di relazione e di contiguità tra le parti del cosmo e così facendo “nasce”, anzi “co-nasce”, al mondo». Ma questo ce lo spiegherà nuovamente Doña Prouhèze, quando pronuncerà il suo immortale discorso a Don Rodrigue: «Dalla parte in cui vi è più gioia, è lì che vi è più verità».