Nella primavera del 1968 la Rai manda in onda l’Odissea di Franco Rossi, ‘doppiata’ nell’inverno ’71-’72 dall’Eneide, sempre di Rossi: due «sceneggiati» che per molti della mia generazione affiancarono o precedettero l’alfabetizzazione scolastica, offrendo allo stesso tempo un primo canone figurativo dell’epica antica. Gli eroi, gli dèi, le armi, i paesaggi, la tenebrosa Penelope, il tormentato Giulio Brogi così distante dall’Enea vaporoso del Tiepolo riprodotto nelle tavole dell’antologia… Quale insegnante di greco o quale intellettuale avrebbe scommesso allora che quei film televisivi un giorno sarebbero finiti all’università? Non nei corsi di Storia del cinema, ma proprio nei dipartimenti di antichistica! Anche da questo punto di vista, la recente pubblicazione di un ponderoso Companion to Ancient Greece and Rome on Screen (Wiley Blackwell, pp. XIII-550, £ 120,00) costituisce una stimolante provocazione e, in seconda battuta, un pressante invito a riflettere sul presente/futuro del Classico.
Non è facile trovare l’equivalente italiano di companion (vademecum? manuale? introduzione?), un formato editoriale che sta registrando una crescente fortuna nelle University Press anglosassoni. I «Blackwell Companions» dedicati al mondo antico, per esempio, sono già quasi una trentina – dalla Grecia arcaica a Marco Aurelio, dalle Guerre puniche ad Agostino – e analoghe collane figurano nel catalogo della Cambridge, dell’olandese Brill, e così via. Ogni volume ha carattere monografico e contiene decine di saggi affidati a vari specialisti, a comporre una sorta di prisma. Le facce illustrano ciascuna un aspetto dell’argomento, il tutto coordinato da un «editor».
Questa volta il curatore è Arthur J. Pomeroy, professore di Classics – con spiccati interessi per la Storia sociale – alla Victoria University di Wellington in Nuova Zelanda. Egli ha convocato un po’ da tutto il mondo studiosi con differenti competenze (in molti casi multiple), filologia e letteratura classica, storia antica, reception studies, cultural studies, comparatistica ecc: un primo volo d’uccello sull’espansione geografica e l’evoluzione disciplinare degli studi classici negli ultimi vent’anni. «Cinematografia e antichità» dunque. Secondo Pomeroy la prima pietra è stato un libro di Maria Wyke, Projecting the Past: Ancient Rome, Cinema and History (Routledge 1997). La Wyke insegna latino a Londra. Nel Companion ricostruisce la storia e il retroterra di alcune rare pellicole del muto, Cleopatra di J. Gordon Edwards (1917), Quo Vadis? diretto da Gabriellino D’Annunzio e George Jacoby (1924), Ben-Hur di Fred Niblo (1925). Questo è solo un piccolo frammento della mole di film, registi, attori, produttori e artisti scrutinati nel volume.
Una parata di queste proporzioni non è però esente da rischi di metodo. Gli antichisti, è quasi inevitabile, hanno una visione del passato che confligge con quella stilizzata e semplificata dell’industria del cinema, e Pomeroy stesso non nasconde il paradosso ‘a monte’. Certi anacronismi grotteschi dell’«Era Peplum» (il vecchio problema del «past unhistorical») continuano a costellare tranquillamente le sceneggiature attuali: Il gladiatore di Ridley Scott (2000), che suscitò l’interesse di molti accademici, non è poi tanto più credibile, dal punto di vista documentario, del suo antenato La caduta dell’Impero romano di Anthony Mann, 1964! I professori di Storia vengono consultati sui dettagli minori, quasi mai sulla effettiva «autenticità» della ricostruzione complessiva.
Anche i professori che firmano questi saggi non sempre riescono a evitare la trappola a suo tempo denunciata da uno dei più autorevoli studiosi e teorici nel campo della ‘fortuna’ dei classici, il latinista di Bristol Charles Martindale: troppi film sui Greci e sui Romani sono nient’altro che prodotti industriali, del tutto privi di una risoluzione formale che giustifichi l’attenzione da parte di un serio antichista. Non possono finire accanto a Milton e a Eliot. Ma tornando al libro, nell’impossibilità di dare conto qui dei singoli saggi, soffermiamoci almeno sul contributo, a firma dello stesso curatore, dedicato alle «riduzioni» della Rai citate in apertura («Franco Rossi’s Adaptations of the Classics»). È il primo di una sequenza di studi dedicati al ruolo della televisione come dispensatrice influente di una certa «immagine del passato»: dalla «classic series» ispirata a Graves, trasmessa dalla BBC negli anni settanta (Juliette Harrisson), alle recentissime produzioni dei canali a pagamento inglesi e americani (Monica S. Cyrino). Quanto al ‘romano’ di origine fiorentina Rossi (1919-2000), non avrebbe di certo presunto di venire così attentamente visionato e sezionato, tanti anni dopo, da un classicista neozelandese – e comunque in questo Companion egli viene fuori dalla cintola in sù (altro che l’effetto-lavandaia imputato da Achille Campanile alle ancelle di Nausica, nella scena in cui Bekim Fehmiu si risveglia nella terra dei Feaci).
Per l’Eneide soprattutto, risulta chiara la volontà di evitare quei cliché ‘americani’ così ironicamente fissati da Barthes in una Mythologie sul Giulio Cesare di Mankiewicz. Anche per la necessità contingente di trovare locations a basso costo (Cartagine spostata in Afghanistan), il regista avrebbe pigiato sul pedale etnografico (era amico di Pasolini), conferendo al Lazio pastorale una patina quasi frazeriana. La stilizzazione etnica, in effetti, impronta lo sceneggiato tv sin dall’avvio: nel lungo prologo italico con il rituale sul Tevere i latini indossano le maschere dei Mud Men della Nuova Guinea.
Ciò che forse fa difetto a questa generosa esegesi, realizzata a freddo in un dipartimento di Classics agli antipodi del mondo, è il pulsare del correlato storico dell’epoca: mentre gli studenti boicottavano lo studio «inutile» del greco e del latino, sui giornali e a scuola il tema preferito degli spettatori colti era la corrispondenza fisiognomica e psicologica dei personaggi al Mito, o il grado di fedeltà della sceneggiatura al testo «originale» (come se fosse concepibile, sul piano linguistico e retorico, paragonare una messa in scena cinematografica a un testo letterario). Un paio di generazioni dopo, il rischio di sfuocatura sembra annidarsi nell’eccesso opposto, se è vero che ormai non solo a Princeton ma a Cambridge, a Tubinga o, mettiamo, a Pisa, è diventato possibile barattare una tesi su Erodoto con una su 300 di Snyder.
Quel che negli ultimi vent’anni è accaduto nel campo degli studi classici sembra essere una ramificazione del vecchio Fortleben («sopravvivenza»), categoria che gli storici della letteratura erano soliti relegare nelle appendici dei manuali. Ormai è unanimemente accettato che la comprensione profonda del patrimonio classico non possa prescindere (anche) dallo studio delle sue molteplici rielaborazioni lungo la storia della cultura, perciò sempre più numerose aree e scuole di ricerca hanno progressivamente spostato l’asse dei loro interessi (e finanziamenti) dallo studio dei classici tout court alle loro ‘ricreazioni’; dai modelli alle ‘appropriazioni’ di quei modelli.
La parola-chiave, ormai è chiaro, è «reception», «ricezione», «Rezeption» in tedesco. Per primi sono stati proprio gli esponenti della cosiddetta Scuola di Costanza (Robert Jauss e Wolfgang Iser) a fondare teoricamente, alla fine degli anni sessanta, una ‘Estetica della ricezione’, nel grande solco della filosofia ermeneutica tedesca. Presso il campo degli studi classici questo modello interpretativo è cresciuto enormemente grazie anche alla massiccia diffusione della comparatistica anglofona di matrice postcolonial studies. Con l’affermarsi sul piano teorico e sperimentale del concetto di «ricezione» si è registrato quasi in parallelo il declino della categoria complementare, quella della «tradizione»: mentre lo studio della tradizione metteva l’accento sulle potenzialità e sulla forza del testo originale, sui suoi caratteri conservatisi riconoscibili nonostante il diluvio della Storia; la critica della ricezione ha spostato il peso molto più sulle spalle del lettore-interprete, che diventa di fatto il decisivo e irrinunciabile «esecutore» del modello, la voce senza la quale esso non avrebbe più alcuna possibilità di comunicare.
Di questo e molto altro si parlerà di certo al convegno internazionale «Ad modum recipientis. Ricezione e tradizione dell’antico» in programma a Trieste nei prossimi giorni, a cinquanta anni esatti dall’atto fondativo della Scuola di Costanza. Non è di poco conto che l’iniziativa si svolga in una provincia a vocazione europea come Trieste, la città di Svevo e Joyce; e che a idearla sia stato un latinista doc di nuova generazione, Marco Fernandelli, non per nulla allievo di Franco Serpa: uno studioso che non ha mai smesso di conversare con gli Antichi e coi Moderni, e soprattutto di farli conversare tra di loro.