Pare che, quando nel 1973 doveva consegnare al suo editore Acqua Viva (da noi appena uscito per Adelphi nella nuova traduzione di Roberto Francavilla, pp. 95, euro 14,00), Clarice Lispector abbia esitato. Un’insicurezza strana per lei che aveva sempre scritto e pubblicato molto (era anche giornalista e traduttrice), con il favore pressoché unanime della critica. Di famiglia ebrea, nata in Ucraina nel 1920 ma cresciuta in Brasile, dove muore nel 1977, Lispector aveva infatti esordito nel 1943, poco più che ventenne, con l’acclamatissimo Vicino al Cuore Selvaggio. I suoi libri non erano mai risultati di facile collocazione nel panorama letterario nazionale, tanto che, se proprio si doveva iscriverli in una tradizione, succedeva che a venire evocati, più che altro per il comune ricorso alla tecnica del flusso di coscienza, fossero Joyce o Virginia Woolf; mai, comunque, un altro scrittore brasiliano.

Con Acqua Viva, però, da molti considerato il suo capolavoro, Clarice Lispector sembra consapevole di essersi addentrata in una indeterminatezza ancor più radicale, quasi pericolosa; prima di tutto perché la trama, sempre leggera, pretestuosa, stavolta è addirittura assente. In sintesi: un «Io-femmina», che è un’artista e per mestiere dipinge, si lancia con sbandierata imperizia in una lettera che forse non consegnerà mai, diretta a un «Tu», in passato suo amante, del quale non sapremo altro. È a Tu che Io reca in dono le sue stralunate prede linguistico-esistenziali: quegli «istanti-adesso» che, nel loro fluire da un presente all’altro, trasportano nascosto fra le righe l’«è» della vita, cioè l’atto in sé di vivere. L’«è» è il verbo dell’«it», che è materia avanzata dalla creazione e vicina all’origine, intesa come bíos indifferenziato e pre-individuale il quale trova nell’utero e nelle grotte il suo ambiente naturale: «L’oscurità», dice Io, «è il mio brodo di coltura».

Ma come si cattura l’istante? L’unica soluzione, risponde Io, «è scrivere distrattamente». Ne risulta il cedimento di ogni sforzo, prima di tutto narrativo. Il giovane protagonista di un racconto di Salinger suggerisce al fratello, che gioca a biglie per strada e sta perdendo clamorosamente: «Non potresti mirare un po’ meno?». In Acqua Viva la strategia è proprio questa, fare centro senza prendere la mira: «Questo testo che ti do», dice Io, «non è fatto per essere guardato». Pena la pietrificazione del senso, cioè di quell’oggettivo opaco che, da fermo, non varrebbe più niente: «il movimento spiega la forma», diceva Joana in Vicino al Cuore Selvaggio. Perciò non si può stringere un uccellino nella conca delle mani e non si può allevare un rapace, è scandaloso. L’«it», soprattutto dove abbonda: nelle bestie, nei fiori, non può venire immobilizzato; al massimo avvertito con i sensi o colto di sbieco, con la coda dell’occhio.

È facile ritrovare questi stessi temi altrove, disseminati nell’opera di Clarice Lispector: l’ossessione per la fluidità, l’aderenza al sentire che prevale sui fatti narrati; la venerazione per il mondo animale e vegetale, che conserverebbe intatte le proprie virtù primigenie, quindi divine; il linguaggio disancorato, ossuto ma allo stesso tempo favolistico, sempre alogico come può esserlo, folle, la matematica. Tutto questo compone la struttura generale dell’opera di Clarice Lispector, ma in Acqua Viva l’assenza di un intreccio estremizza queste costanti: si avanza per profezie, lampi e privazioni.

L’«Io-femmina», nuda persino dello straccio di un nome, cammina in un paesaggio esploso, esplosa lei stessa e capace perciò di trasmutarsi in pantera o strega, cavallo o inquisitore. L’impressione è che questa sapienza femminile, accessibile, paradossalmente, solo una volta superata l’identità di genere, sia stata guadagnata a monte, in altri libri, come se i riti di iniziazione si fossero già svolti. Non si può non pensare a La Passione secondo G.H., uscito nel 1964, forse il più sconvolgente fra i romanzi dell’autrice, dove la protagonista, che nutre un’avversione fortissima per gli scarafaggi, ne trova uno nella stanza della donna di servizio. Il ribrezzo la spinge a schiacciarlo nell’anta dell’armadio, per subito dopo scoprirsi, scrive Angelo Morino, a «ricongiungersi all’immondo», cioè a mangiare la vita pastosa: la cremosità biancastra fuoriuscita dall’addome della bestia.

Se non in maniera altrettanto letterale, la stessa cosa era già successa a Joana in Vicino al Cuore Selvaggio, quando dice che il dolcetto mangiato insieme al caffè aveva un sapore strano, di «vino e blatta». Cibarsi dell’interdetto significa annettersi la sacralità del neutro, incontenibile nei parametri austeri del genere maschile o femminile. Perciò il terrore degli specchi e l’attrazione verso di essi, che ricorre in tutta l’opera di Clarice Lispector: nel loro riflesso si teme di vedere un corpo, limite supremo alla propria capacità espansiva.

Oltrepassare il confine implicherebbe anche lasciarsi alle spalle quel desiderio di socializzazione, «piacere agli altri, essere amata», che del tessuto narrativo fa un ponte: da chi scrive a chi legge. Qui resta solo l’intervallo buio fra le intermittenze luminose di una lucciola, dove il nero corrisponde a ciò che sta fra-le-righe, che è poi il luogo dove l’«it» si manifesta meglio: il non-scritto. Eppure, in un’atmosfera così apparentemente rarefatta, che giustifica le ansie della scrittrice al momento di divulgare il suo testo, agisce una forza contraria e riequilibratrice che trattiene dallo spingersi troppo oltre i bastioni dell’esprimibile.
Questa forza è poetica, linguistica e, nonostante tutto, anche narrativa. La stanza è complessivamente caotica ma ogni suo angolo o cassetto è perfettamente ordinato. Storie a mo’ di brevi parabole si frappongono, come nei cartoni animati il bastone infilato per dritto nella bocca dello squalo, tra il «mostro», cioè, come scrive Io, la «vita vista dalla vita», e il lettore, per evitare di farsi annichilire da un’eccessiva esposizione alla verità dell’esistenza.

Suocere africane che arrivano a portarsi via il casco di banane, il ventre dell’alba sempre «pieno di uccellini», la civetta riluttante ad abbandonare la donna che l’ha allevata: sono le immagini e gli aneddoti che rendono questo testo, «a-tematico» e antidiscorsivo, vivibile, anzi respirabile e godibilissimo. Anche grazie al conforto di queste rare boe, lasciarsi andare all’acqua-viva – espressione che in portoghese significa anche medusa – è un’esperienza straordinaria, tirati come si è dalla gioia selvaggia di quel principiante assoluto che è Io, il quale fa cominciare il suo resoconto primitivo con queste parole: «È con un’allegria così profonda. È una tale alleluia. Alleluia, grido, alleluia».