Arriva oggi in sala, grazie alla lungimiranza di Teodora distribuzione, Aquarius che dalla prima proiezione allo scorso festival di Cannes (dove era in corsa per la Palma d’oro) è diventato subito il film-evento di quest’anno. Il suo autore, Kleber Mendoça Filho è alla seconda prova anche se è un nome già affermato, almeno nei circuiti festivalieri grazie al bell’esordio (premiatissimo) con Neighboring Sounds, il che tra l’altro rendeva questo ancora più difficile. Anche perché Aquarius è opera «fuoriclasse» connessa al proprio tempo e insieme antagonista nel modo di affrontarne le discrepanze e le tensioni reinventando una narrazione politica vitale e appassionata.

Nella storia della protagonista, e nella sua tenace e solitaria resistenza contro i soprusi di corruzione e neoliberismo, si possono rintracciare le vicende legate al’attualità del Brasile (e a Cannes sul tappeto rosso l’equipe intera si è schierata a sostegno della presidente Dilma Roussef), e forse si tratta di qualcosa in più che una «coincidenza» (ovviamente è stato girato prima). Esprime cioè la natura di un cinema capace di guardare dentro ai dettagli, di precedere nelle sue intuizioni la realtà.
Siamo a Recife, che è anche la città dove è nato il regista e dove era ambientato il film precedente, Clara con la bellezza divina di Sonia Braga, icona brasiliana mondiale, è una giornalista musicale, che vive in una bella casa di fronte al mare. È sempre stata lì, ci sono cresciuti i suoi figli, ci sono i suo ricordi, i segni di una vita intera: ogni angolo racconta qualcosa, il volto di chi ha amato, i segreti, la complicità, il marito, la zia ribelle,la malattia che è riuscita a sconfiggere anni prima. Tutto è racchiuso in quelle stanze, tra gli scaffali pieni di oggetti, i dischi di vinile che sono l’incanto del suo giovane e amatissimo nipote, a cui regala le canzoni di Maria Bethania per aiutarlo a sedurre la ragazza di cui si è innamorato.

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Clara adora quel luogo, e l’oceano in cui nuota ogni mattina, anche se è rimasta sola, gli altri inquilini del palazzo sono andati via cedendo alle proposte di una grande immobiliare che vuole trasformare il quartiere in un complesso residenziale di lusso.Il giovane e rampantissimo ingegnere della società sorride e offre molti soldi ma Clara non cede: resiste ai milioni e alle subdole minacce camuffate da gentilezza di chi si vanta del suo master di business economy in America.

Il film è costruito su questa tensione, costante e continua, che oppone la protagonista a un «esterno» che le sfugge, a cui si scopre sempre più estranea, persino la figlia l’accusa per le sue decisioni. Ed è uno scontro che si misura sugli spazi del’individuo, sociale e privato, di chi come lei cerca dei margini e degli alleati in una realtà che non ne lascia: media, politica, affari, desideri si intrecciano e si coprono a vicenda. La scrittura del film, però, spiazza radicalmente la semplificazione sociologica mettendo al centro le esperienze della protagonista e la sua fisicità, un corpo sentimentale che il regista filma con amore, e la sua lotta diviene anche una sfida allo stereotipo femminile dell’età. Madre conflittuale, moglie innamorata, vedova, nonna, seduttiva e sfacciata: il piacere del mare e di un ragazzo, il gusto del vino e della sensualità.

Sonia Braga è splendida complice in questa relazione che si dipana piano piano coinvolgendo ciò che sta intorno. Tra gentrificazione e piccoli riti quotidiani, le paranoie borghesi (anche la classe della protagonista non è risparmiata pure se il regista mantiene il sguardo fermo qui) e l’arroganza dei poteri, il corpo magnifico di questa donna intreccia infiniti motivi, storie, epoche narrando il sentimento di un’utopia perduta. Fino a diventare quasi una cartografia del contemporaneo a cui con la sola presenza Clara insinua un disagio, una crepa, frattura.

La sua non è soltanto  la testardaggine di una «vecchia folle», che peraltro di appartamenti ne possiede altri cinque, e comunque non andrebbe in miseria visti i milioni che le offrono. È piuttosto qualcosa che riguarda la qualità della vita, e soprattutto il rifiuto dell’arroganza e della rassegnazione che prova a trasmettere – in un doppio salto generazionale – ai suoi giovani amici. Quel suo corpo che è stato attaccato dal cancro è lo stesso Brasile divorato dall’interno, ed è la sua casa minata da temibili roditori. Ma la metafora, fin troppo limpida, si sorprende nella sua attuazione, sfugge alla drammaturga, prende direzioni inattese che respirano del tempo e dell’andamento della vita, dei suoi languori e delle sue rotture improvvise. E nell’alternanza tra dettagli intimi e macrocosmo, il «dentro» e il «fuori» compongono la scintilla di un immaginario che riesce ancora a reinventare il mondo.