La scomparsa di Clara Sereni sottrae al panorama delle patrie lettere una figura di rilievo della nostra scrittura, ancorché sufficientemente appartata e per nulla abituata a rendere facile esibizione di sé. Poiché tutto il suo repertorio letterario, sospeso tra libera narrazione e resoconto critico della sua esperienza della quotidianità, ben poco si presta a facili sintesi, semmai giocando sempre sul difficile crinale che intercorre tra dimensione pubblica e sfera privata nella costruzione dell’identità.

La sua mancanza di disposizione al clamore è poi ulteriormente avvalorata dal sentirsi snodo di tante storie che nei suoi libri sono state ripetutamente richiamate. Non c’è nessuna preordinazione nei fatti e nei pensieri che racconta. Ci sono storie, per l’appunto, prima ancora della «storia».

Il caso gioca una parte importante ma dentro di esso si formula lo spazio del bisogno e, con esso, quello della dignità umana. La quale è tale proprio perché in costante stato di necessità. Calra Sereni, infatti, è sempre lontana dalle mitologie individualiste dell’autosufficienza, dentro le quali leggeva il tracciato dell’individualismo egoistico che rompe il tessuto delle relazioni interpersonali. Più che interrogarsi sul potere si è esercitata sul lavoro contro le condizioni di impotenza, chiedendosi continuamente quali fossero le pratiche che ne favorivano il superamento.

Una figura rigorosamente novecentesca, quindi, nella quale il paradigma di riferimento è il confronto e l’ibridazione con il mondo circostante. Malgrado il fatto che i temi che nel corso del tempo ha affrontato si offrano ad un immediato impatto pubblico (identità politica e di genere, femminismo, attività amministrativa sul territorio, cura delle disabilità e del disagio ma anche affettività, memoria e storia), la cifra della misura e del pudore, intesi come due corollari della dignità, è dominante in tutta la sua produzione letteraria al pari della sua azione sociale e politica.

Il tema della relazione con la memoria di famiglia si intreccia così con quello del rapporto con la comunità circostante, senza tradursi in una gelosa difesa identitaria. Allo stesso tempo, il rapporto con il figlio disabile apre alla questione non solo della diversità ma della socializzazione di un pluralismo non desiderato, come neanche subito passivamente, ossia quello dettato dalla concreta esperienza della sofferenza. La quale si trasforma in un viaggio dentro passioni e sentimenti, illusioni e speranze, solitudini e solidarietà, volti e sguardi. Fare in modo che tutto ciò non si traduca in insofferenza e risentimento rimane un aspetto imprescindibile del suo scrivere. Forse proprio nel «taccuino di un’ultimista», di una ventina d’anni fa, ha dato il migliore profilo di se stessa, quando si definisce come «quattro spicchi dei quali, con continui sconfinamenti, mi sembra di compormi: ebrea per scelta più che per destino, donna non solo per l’anagrafe, esperta di handicap e debolezze come chiunque ne faccia l’esperienza, utopista come chi, radicandosi in quanto esiste qui e oggi, senza esimersi dall’intervenire sulla realtà quotidiana, coltiva il bisogno di darsi un respiro e una passione agganciati al domani». Peraltro Sereni rifuggiva da qualsiasi tipo di etichettatura, giocando continuamente sulle sfumature delle sue appartenenze.

Un altro tema di fondo della sua scrittura, nel continuo riversarsi reciproco di pubblico e privato, è quello che lega società a socialità. Se la società è una dimensione che si impone all’individuo, rischiando di incorporarlo fino al punto da annullarne la soggettività di cui è portatore, la socialità diventa la trama di rapporti concreti attraverso i quali si concretizza la persona.

Anche per questo l’identità personale è essenzialmente un’esperienza di mobilità continua, soprattutto davanti ai tanti scogli dell’esistenza. Scrivere è allora qualcosa di più del soddisfacimento di una passione, divenendo semmai una perentoria esigenza, quella del testimoniare a se stessa la ricerca delle radici della propria individualità. Una ricerca inesauribile che è il senso stesso della vita.