Clara Banya ha scoperto di essere affetta da Hiv a 25 anni. Lavorava come volontaria in un ospedale locale quando ha notato di avere gli stessi sintomi dei suoi pazienti. Il risultato del test ha confermato le previsioni iniziali ma non le ha garantito un accesso immediato alle cure mediche.

Così, nonostante fosse sieropositiva, Clara ha dovuto viaggiare 400 km per effettuare un test CD4, la conta dei linfociti che decide se iniziare, o meno, il trattamento antivirale. Solo dopo i risultati dell’esame è stata definita sufficientemente malata per un trattamento medico.

«Nel 2004, quando ho fatto il test, la situazione in Malawi era molto difficile. Non solo per lo stigma sociale nei confronti di chi era affetto da Hiv. Ma anche perché il trattamento contro il virus era stato appena introdotto nel paese e le possibilità di accedervi erano minime. Quando si riceveva la notizia di essere sieropositivi, la prima idea che veniva in mente era che non si sarebbe sopravvissuti».
Clara Banya è la coordinatrice per il Malawi dell’International Community of Women Living with HIV, l’organizzazione non governativa fondata a Londra che ha portato la sieropositività femminile al centro della discussione pubblica.

E lo ha fatto in anticipo sui tempi, già negli anni Novanta, quando parlare di Aids era tutt’altro che facile e la malattia era ambito quasi esclusivo del privato. Così come non era facile parlare di donne malate. L’Aids era definita comunemente una «gay plague» e, come tale, se ne discuteva nell’idea che colpisse principalmente gli uomini. Da qui le finalità dell’ICW: adottare una prospettiva di genere per parlare di sieropositività, collocare le donne con Hiv al centro di una discussione fuori dal privato e ribadire la centralità della salute riproduttiva. Con l’ICW, Clara offre supporto alle organizzazioni che si occupano di lotta all’Hiv. Organizza campagne di sensibilizzazione sull’importanza di fare i test. Combatte, sul piano culturale, i pregiudizi che circondano la sieropositività e ne impediscono una reale prevenzione.

«A causa della situazione economica e culturale, in Malawi le donne sono svantaggiate rispetto agli uomini. Hanno più probabilità di essere colpite dal virus. Noi lavoriamo al loro fianco. Creiamo processi di empowerment. Vogliamo inserirle nei meccanismi decisionali. Insieme a un intervento culturale, che si mostra più che necessario. Sono ancora molti i pregiudizi nei confronti di chi è malato di Hiv. In molti pensano che tu abbia fatto qualcosa di sbagliato. È uno stigma sociale».
Una logica gender mainstreaming adottata anche dal Global Fund to Fight AIDS, Tubercolosis and Malaria – il partenariato che coinvolge governi, istituzioni, società civile e comunità di persone colpite dalle tre malattie – di cui Clara è speaker.

In questi giorni è arrivata in Italia con l’Osservatorio italiano sull’azione globale contro l’Aids che fa parte della rete di sostegno internazionale della società civile.
«Do una voce e un volto alle attività del Global Fund. Sono un esempio vivente di quanto il Fondo è riuscito a ottenere in Malawi nel corso degli ultimi anni. Senza il suo intervento, non sarei qua. Se posso alzarmi in piedi e dire al mondo Sì, sono qui. E sono viva è grazie al suo programma».
Il Global Fund ha introdotto in Malawi un trattamento gratuito per la cura dell’Hiv, che la stessa Clara ha utilizzato. Grazie alla campagna retrovirale promossa dal Fondo, «nel paese oggi la situazione è cambiata. Sono molte le persone che hanno ricevuto un trattamento». Sono 540.000, per dare le cifre.

In Malawi quale parte della popolazione è più colpita dall’Hiv?
Sono le donne. E sono numerosi i fattori che contribuiscono. Alcune tradizioni culturali, per esempio. Inoltre, in Malawi le donne non prendono sempre parte ai processi decisionali. In famiglia, nella società. È molto difficile per una donna chiedere di avere rapporti sessuali protetti. Anche nelle relazioni coniugali. E questo la mette in una posizione di maggiore difficoltà rispetto a un uomo.

Qual è l’importanza dei diritti sessuali e riproduttivi?
È fondamentale che le donne conoscano come curare la propria salute riproduttiva. Si tratta dei nostri corpi, i nostri diritti. Se le donne sapessero come comportarsi con i diritti sessuali e i diritti riproduttivi, sarebbero capaci di avanzare delle richieste. Di pretendere. Potrebbero esigere di non avere rapporti sessuali che non siano protetti. Capire questo è anche un processo culturale. Spesso le donne non si rivolgono agli ambulatori perché si vergognano. Per questo devono essere informate, così da assumere decisioni al pieno della loro volontà. In questo modo, sceglieranno in autonomia.

Si può utilizzare una prospettiva di genere nella discussione sull’Hiv?
È decisivo impiegare una logica di empowerment sulle donne. In Malawi la maggior parte delle donne non riceve un’educazione a causa delle scarse risorse economiche. Utilizzare un approccio di genere nella prevenzione significherebbe agire sull’autonomia della popolazione femminile. Se si è indipendenti dal punto vista economico, se si riceve un’educazione, si potranno prendere decisioni informate sui fatti. Le donne potrebbero difendere i loro diritti. Saprebbero dire no, se lo vogliono.

In Malawi il sistema sanitario garantisce un accesso egualitario alle cure?
Non ancora. E questo è un problema generale, che non riguarda solo le donne. Ma il sistema è stato supportato dall’intervento del Global Fund. Un importante obiettivo raggiunto è la prevenzione madre-figlio. Oggi, per ogni donna incinta è obbligatorio il test per monitorare la presenza del virus. Con frequenza gli ambulatori locali sono troppo lontani dalle comunità. Si deve camminare molto per raggiungerli. A causa delle distanze e della mancanza di mezzi, sono soprattutto le donne a perdere gli appuntamenti e interrompere le cure. Non sono indipendenti economicamente e da sole non hanno il sostegno sufficiente per raggiungere le cliniche. La soluzione migliore sono le cliniche mobili, in modo da distribuire i farmaci anche nelle comunità più lontane. Questo permette di agire a livello locale.

C’è un’azione comune tra le donne in lotta contro l’Hiv?
C’è solidarietà tra donne. Tre anni fa avevamo un problema. I vecchi medicinali erano problematici se ad assumerli era una donna. Alcune parti del corpo diventavano più grandi di altre. E si capiva, dall’esterno, che si stava seguendo il trattamento antivirale. Noi ci siamo opposte. Abbiamo denunciato che i farmaci non ci curavano. Perché erano pensati per un corpo maschile e molte avevano smesso di assumerli. Tutte insieme, siamo riuscite a innescare un cambiamento perché i farmaci sono stati sostituiti.
Nella lotta all’Hiv in Malawi le donne ricoprono un ruolo centrale. Il numero delle donne che vive con il virus è elevato. Se tutte venissero coinvolte nei processi, contribuirebbero loro stesse alla prevenzione. Se a una donna vengono date sufficienti informazioni sul virus, su come è possibile tutelare se stessa, sarà capace di insegnare ad altri la prevenzione. E il numero dei malati diminuirebbe. Escluderle dalla lotta contro l’Hiv sarebbe un grande errore. Noi diciamo che se educhi un uomo, educhi un individuo solo. Ma se educhi una donna, stai educando un’intera comunità. Perché una donna non è mai solo se stessa. Nella comunità abbraccia tutti. Se ne prende cura.

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GLOBAL FUND. L’ACCESSIBILE CURA DELL’HIV

A partire dal 2002, anno della sua istituzione, sono 17 milioni le vite che il Global Fund ha contribuito a salvare. In media concorre a salvarne circa 2 milioni l’anno, grazie a terapie antiretrovirali per oltre 8,6 milioni di persone. Nei paesi in cui è intervenuto, il numero di morti correlate all’Aids è sceso del 40%: dai 2 milioni del 2004 a 1,1 milioni nel 2014. Fra il 2000 e il 2014, anche il numero delle infezioni da Hiv è calato del 36%. I programmi nazionali di prevenzione della trasmissione madre-figlio del virus hanno raggiunto il 73% della popolazione. L’impegno a contrastare le tre epidemie è tra i 17 Obiettivi di Sviluppo Sostenibile dell’Agenda 2030, approvata dalle Nazioni Unite lo scorso settembre.