Scambio di colpi tra Luigi Manconi e Marco Travaglio, su l’Unità di martedì e il Fatto di mercoledì scorso. Attacca Manconi, replica (e contrattacca) Travaglio. Il presidente della commissione diritti umani del Senato accusa il condirettore del quotidiano di Padellaro di usare impunemente la parola «clandestino», su cui la destra ha costruito nel tempo il suo ministero della paura; replica Travaglio che in maggioranza con la destra (fino a ieri) c’è stato il suo contraddittore.

Si può discutere – e si è molto discusso – dell’opportunità delle larghe intese che furono. Così come della fiducia ad Alfano sul caso Shalabayeva, rinfacciata da Travaglio a Manconi, che pure è stato il principale divulgatore istituzionale dell’affaire kazacho. Fin dove arrivano i vincoli politici in un governo di coalizione? È una grande questione di etica pubblica, relativa alla responsabilità istituzionale. Ma non è questo che mi interessa discutere in questa brevissima incursione in una polemica altrui. Mi preme, piuttosto, rilevare come nella sua replica Travaglio non senta neanche la necessità di riconsiderare l’uso di quella parola stigmatizzante («clandestino») che ha fatto la fortuna della Lega e di tanti sindaci-sceriffo in molte contrade del nostro Paese, e anzi ne rivendica implicitamente la legittimità, continuando ad abusarne per qualificare gli immigrati soggiornanti senza permesso in Italia. Non solo: tra i gravi addebiti attribuiti da Travaglio a Manconi c’è anche l’indulto del 2006, e non tanto perché ne hanno goduto Berlusconi e Previti (con scarso successo, pare, a giudicare dalla notizia di questi giorni e dal perdurante ritiro a vita privata dell’ex-colonnello berlusconiano), ma perché ne avrebbero goduto «decine di migliaia di criminali», che poi sarebbero quei poveri cristi in nome dei quali è stata crocifissa la ministra Cancellieri e che tutti dicono di voler far uscire di galera, chi – come Napolitano – anche grazie a un nuovo provvedimento di clemenza, chi – come i suoi critici – solo attraverso leggi di depenalizzazione.

Del resto, il giornale di Travaglio apriva la prima pagina di ieri con un titolo-minaccia: «È fuori. Può finire dentro». Ecco, allora, diciamola così: Berlusconi è decaduto, sarebbe ora che la sinistra (politica, sociale, culturale) prendesse le distanze dai profeti delle manette che, per combattere l’arci-nemico, hanno contribuito culturalmente a generare i massimi livelli di carcerazione e di controllo penale delle classi subalterne che la storia dell’Italia repubblicana ricordi.