Trovo per così dire bizzarro che chi rivendica con fierezza la propria ascendenza socialista e chi evoca come proprio riferimento la dottrina sociale della chiesa, voglia difendere un catorcio reazionario e regressivo come il reato di clandestinità. Si tratta di una fattispecie penale propria di una fase giuridica precedente all’affermazione dello stato di diritto: quella in cui si veniva puniti non per le azioni commesse ma per la propria condizione esistenziale, culturale o sociale. Si veniva puniti perché «vagabondi o sovversivi», «anticlericali» o «giudei». Fatte le debite differenze, il reato di clandestinità evoca il medesimo clima e punisce non per ciò che si fa, ma per ciò che si è. Vengono cosi contraddetti principi fondamentali del diritto moderno, quello liberale e garantista, che esige – perché vi sia reato – materialità e offensività dell’azione, capace di ledere terzi o interessi collettivi tutelati. Col reato di clandestinità si punisce la mera condizione esistenziale di chi, alla ricerca di un’opportunità di vita e di futuro, si trovi irregolarmente presente nel territorio nazionale. Perché non introdurre, allora, la fattispecie penale della povertà? E trovo addirittura eccentrico che l’unico argomento addotto dagli indomiti sostenitori di quel reato sia il fatto che esso si ritrovi negli ordinamenti di altri Stati. Beata innocenza. Sanno, costoro, che nel mondo sono ben sette le cosiddette «democrazie liberali» che prevedono la pena capitale?