Dimenticate la nevrotica maestosità delle Correzioni di Jonathan Franzen o la sapienza ritrattista delle coppie ordinarie di Anne Tyler, sebbene a entrambi sia stato stonatamente accostato dalla critica l’esordio di Claire Lombardo, americana dell’Illinois, che con continui spostamenti del punto di vista e un raffinato senso dell’umorismo ci offre un efficace quadro della nostra gioventù iperproblematica: una gioventù, per dirla con Daniele Giglioli, traumaticamente priva di traumi, e in fin dei conti inesorabilmente normale. Delle quattro sorelle Sorenson, attorno alle quali è costruito l’avvolgente Mai stati così felici (traduzione di Silvia Castoldi, Bompiani, pp. 560, € 22,00), la più piccola, Grace, pensa: «A volte la famiglia riesce a farti dimenticare gli stupidi limiti della tua vita insulsa». Ma non è solo il luogo privilegiato dove trovare conforto, solidarietà e tregua dalle proprie inquietudini, la famiglia, è anche una girandola claustrofobica, dove ci si sente inadeguati nonostante l’incoraggiamento e l’affetto dei genitori.

I coniugi Sorenson sono felici, non hanno mai smesso di amarsi, ed è proprio questo idillio a far sentire le figlie in difetto, fragili e incapaci di costruirsi un mondo altrettanto stabile. A scombussolare ulteriormente le dinamiche familiari sarà l’arrivo del figlio segreto della secondogenita, dato in adozione subito dopo la nascita. Ma lasciamo la parola a Claire Lombardo.

Il malessere dei sobborghi è stato a lungo rappresentato nella narrativa americana, dalle opere di Cheever a quelle di Richard Yates, da Joyce Carol Oates al Rick Moody di «Tempesta di ghiaccio», ma molti altri esempi si potrebbero evocare. Anche lei ne sceglie uno per ambientarvi il suo romanzo, l’elegante Oak Park, poco fuori Chicago, ma la casa dei Sorenson non nasconde l’incomunicabilità, lo scontento, i silenzi cui la letteratura ci ha abituati, bensì gioia autentica, passione e devozione. Desiderava, con il suo romanzo, ribaltare l’immagine corrente dei sobborghi quali luoghi privilegiati della solitudine?
Ho effettivamente letto i libri che lei ha citato, prima e durante la scrittura di Mai stati così felici, in particolare i racconti di Cheever, che continuo a rileggere ancora oggi. Un’altra fonte mi è stata data dai romanzi di Evan S. Connell centrati sui coniugi Bridge: il ritratto per eccellenza della noiosa vita dei sobborghi. Lo scontento mi affascina. Tuttavia, mentre scrivevo, mi sono imposta una sfida: che almeno al fondo del romanzo ci fosse qualcosa di positivo. Certamente, intendevo costruire la narrazione intorno a segreti, bugie, alla noia dei sobborghi, ma volevo anche che il lettore scoperchiasse la pentola e non ci trovasse solo qualcosa di sinistro bensì dei personaggi che, semplicemente, provavano amore l’uno per l’altro. Marilyn e David sono così presi dalla loro passione che il luogo in cui abitano non è altro se non un dettaglio: David è disposto a trasferirsi dall’Iowa in un posto come Oak Park perché per lui il luogo in cui vivere è secondario rispetto all’amore che prova per la moglie, per la famiglia. Ho scelto Oak Park perché è qui che sono nata e cresciuta e sapevo che sarebbe stato semplice ritrarlo; inoltre, perché è la quintessenza del sobborgo del Midwest: una vasta distesa di foglie, che vanta una tradizione architettonica di un certo rilievo. Progressista, ma fino a un certo punto. Ricco, ma non in modo esorbitante: tutto quanto lo riguarda sta nel mezzo, proprio come intendevo fossero i Sorenson: una famiglia americana normalissima.

La distanza che separa le generazioni descritte nel suo libro è trattata in modo molto originale: siamo abituati a leggere di contrasti familiari come conseguenza di matrimoni tossici, dell’inadeguatezza dei genitori, e così via. Qui invece sono le figlie, sempre un po’ afflitte, a sentirsi limitate dal matrimonio idilliaco dei genitori, perciò creano problemi che esistono solo nella loro mente. Direbbe che queste ragazze rispecchiano l’autocommiserazione e la mancanza di concretezza tipica dei millennial?
Credo che il periodo storico in cui vivono le sorelle Sorenson – insieme al modo in cui tutte e quattro percepiscono la felicità delirante dei genitori – abbia molto a che fare con la loro presa sulla realtà, che è deprimente. Intendevo esplorare la precarietà, in particolare quella dei giovani, e analizzarla in contrasto con quanto ci ha lasciato la generazione precedente. Non solo le Sorenson si sentono schiacciate e oppresse dallo standard apparentemente irraggiungibile dell’amore romantico e della felicità dei loro genitori, ma diventano adulte in un periodo di gravi disordini nazionali, fra l’11 settembre e la recessione economica del 2008, districandosi nell’incertezza dei tempi. Queste ragazze sono sostanzialmente privilegiate, ma qualcosa le frena: ecco, è questa tensione che volevo indagare.

Mentre lavorava al libro, lei ha frequentato un corso di scrittura tenuto da Allan Gurganus, a suo tempo allievo di Cheever. Che consigli le ha dato?
Dopo avergli fatto leggere il prologo di Mai stati così felici, Gurganus mi ha fatto notare un problema cruciale riguardante le voci che parlano nel mio libro, voci secondo lui troppo simili, troppo poco differenziate. Il suo consiglio è stato molto pratico: un post-it per ogni personaggio con su scritto un paio di aggettivi che lo caratterizzano, da tenere sempre bene in vista sopra il computer – per David erano «preciso» e «discreto», per Grace «iperbolica» e «malinconica» – e questo mi ha permesso di avere sempre chiaro ciò che un dato personaggio poteva o non poteva fare, in che modo avrebbe potuto dire una determinata cosa. Mi è stato utilissimo. Anche dopo ho continuato a chiedermi: userebbe una parola di quattro sillabe, questo personaggio, oppure ne sceglierebbe una di una sola sillaba, altrettanto accurata? È il tipo che si fermerebbe a osservare il colore del cielo oppure sarebbe troppo preso dai suoi pensieri? Come mi disse una volta un altro romanziere, Ethan Canin, per realizzare un personaggio tridimensionale «si deve diventare quel personaggio».

Il romanzo copre quattro decadi e alterna presente e passato mostrandoci prima gli effetti di quanto accade e solo dopo le cause. Ha adottato questa struttura fin dall’inizio o l’ha ideata in un secondo momento?
Il romanzo ha avuto lunghe e tortuose evoluzioni prima di assumere questa struttura, e a rendere più complicate le cose è stato il fatto che non l’ho scritto in ordine cronologico. In nessun tipo di ordine, a dir la verità. Ogni giorno scrivevo la scena che mi sentivo di scrivere. In una prima bozza, il libro era fatto di 500 pagine totalmente prive di trama e composte da scene in ordine sparso. Poi, la versione che ha fatto decidere alle mie agenti di rappresentarmi era diventata di oltre 800 pagine, troppo lungo, a detta di molti. Ma Lee Boudreaux della Doubleday – che è diventata la mia editor – mi disse: «La lunghezza del libro sarà quella appropriata alla storia». Abbiamo lavorato insieme un anno intenso – il rapporto editoriale, se funziona, è qualcosa di speciale, un regalo. Scrivere è un’attività fortemente solitaria e incerta, avere accanto una persona dotata di un occhio attento e della giusta sensibilità, disposta a entrare con te nel libro, è straordinario. Nella seconda stesura, per esempio, le pagine si muovevano in ordine cronologico, ma mancava il presente della storia, la molla che ne giustificasse il racconto. Mi è stato detto che avrei dovuto trovare una ragione perché avesse senso osservare questa famiglia protagonista, e così ho trovato il personaggio di Jonah – il figlio dato in adozione da una delle sorelle. Ecco perché ho strutturato il libro secondo un andirivieni temporale. La parabola di Jonah è diventata, in effetti, il filo da cui pendevano, come vestiti bagnati, le altre storie. Conoscendo il presente della storia, mi sono mossa tra mollette e mi sono occupata del passato con la dovuta pazienza. Questa parte è stata molto divertente – mi è sembrato un po’ di piazzare bombe e immaginare quando sarebbero esplose, e così mi sono chiesta quali informazioni eliminare per preservare la tensione drammatica, e la mia scrittura si è fatta via via più concreta, scientifica, matematica perfino.

Come mai questa scelta di concentrarsi sul microcosmo familiare e escludere totalmente il contesto politico e sociale?
Sono sempre stata diffidente – sia come scrittrice sia come lettrice – nei confronti delle storie che hanno la sola funzione di trasmettere idee. Mi interessa di più mettere due personaggi in una stessa stanza e vedere cosa succede. Tuttavia, non era mia intenzione scrivere un romanzo a-politico, e mi pare in effetti, sebbene tra le righe, di indagare anche il mondo esterno – la politica socioeconomica o le questioni di genere sono implicite, per esempio. Credo lo si possa considerare un romanzo femminista: permette di abitare, per un periodo molto lungo, gli spazi delle donne, di dare loro ciò che le spetta. Tutte le figure femminili si struggono per capire come trovare il proprio appagamento, il proprio posto nel mondo, come destreggiarsi in una relazione, se essere madri o no: sono questi i conflitti cui ho cercato di dare più spazio narrativo possibile.