È un romanzo complesso e potente quello della scrittrice canadese Claire Cameron, appena tradotto in Italia per la neonata casa editrice Sem. Presentato in anteprima mondiale il prossimo mercoledì a Milano nell’ambito di Tempo di Libri, L’ultima dei Neanderthal (pp. 288, euro 18, traduzione di Alessandra Osti) è una storia che si dipana lungo un arco temporale di 40mila anni e che intreccia due esistenze, quella di Ragazza e quella di Rose. La prima ha una chioma rossa, gambe forti come tronchi di albero, lotta con i bisonti, il linguaggio che la conduce nel mondo è lo stesso dei viventi, umani e non, con cui vive. Le bastano poche parole, il resto è il tumulto di sentire – secondo il dettato materno – il pensiero come il corpo. La seconda è una paleoarcheologa inglese nel pieno del suo successo scientifico e professionale che lavora in Francia dove, in una grotta, scopre la presenza di due scheletri accovacciati l’una dinanzi all’altro. Che siano stati amanti? Ha un compagno e progetti di serenità. E c’è qualcosa che l’ha sempre affascinata nella connessione tra Neanderthal e umani moderni.

Chi siamo? Da dove veniamo? Sono domande suggestive che nella penna di Cameron incontrano la seduzione di una scoperta scientifica grazie a cui è stato sequenziato per la prima volta il genoma del leggendario gruppo preistorico, concludendo che l’umano moderno porta con sé fino al 4% di quel patrimonio.

«Orribile gente», così li appellava nel suo racconto omonimo H. G. Wells, le storie sui Neanderthal sono diverse, da William Golding in Uomini nudi a quella più recente di Ian Tattersall, I signori del pianeta. Per atmosfere e narrativa speculativa, tra finzione e fiaba, la sensibilità di Claire Cameron la rende tuttavia più prossima ad altre due scrittrici canadesi: Barbara Gowdy e Margaret Atwood. Sceglie dunque una visione del fantastico che interpella e squaderna costantemente il presente.

Se ciò che tiene lontane Ragazza e Rose sono millenni di storia, vi sono delle consonanze che attraggono le loro vite, soprattutto nei presagi che attendono l’archeologa quando cerca il simbolico tessuto tra loro. Non è nelle ossa che crede di sentire dotate di una qualche significativa novità. È piuttosto nella genealogia immaginifica che si fa sempre più concreta, nonostante il tempo dissipatore, i modi di sopravvivenza che negli anni si sono modificati e i sentimenti evaporati dai fossili a disposizione. Al centro, per entrambe, c’è la ferocia consistente la conoscenza del mondo, il rimedio allo struggente luogo dell’oralità – bocca, parola ma soprattutto relazione desiderante con l’altro da sé. A Ragazza basta sollevare il labbro superiore per chiamare a sé i propri affetti o per avvertire il pericolo, nella forma di vita capitata a Rose invece il linguaggio è lo spazio della spiegazione che crede di poter dare di sé. E poi c’è il calore, quello avvertito da un corpo vivo e sessuato che è anzitutto il proprio e che segna l’appartenenza imperfetta alla «famiglia», per scoprire infine che solo il tempo scorre come il sangue.

The Lascaux cave paintings, (Francia, 1940) Fotografia di Jean-Daniel Sudres

L’occhio di Claire Cameron, già nota per il suo precedente romanzo The bear in cui racconta di una bambina di 5 anni che insieme al suo fratellino tenta di sopravvivere dopo la morte violenta dei propri genitori, restituisce il senso di un immaginario che scava nella vertigine della maternità e dell’essere arrivati al mondo senza averlo chiesto. Senza sapere niente l’una dell’altra, Ragazza e Rose si confrontano con il passaggio insaziabile della sessualità, la discrasia tra il riconoscimento della propria origine e l’emancipazione moderna. Impunturano l’impresa impareggiabile di essere «cercatrici» di un lascito più grande dietro di sé da chi è venuta prima di loro. È sapiente Cameron, sa che esiste un luogo, fuori dal dispositivo escludente dell’evoluzione della specie, capace di raccontare fragilità molto più comuni di quanto si pensi. Ma attenzione, non si tratta dello sguardo coloniale sulla «bontà» esotica del selvaggio, l’operazione è invece nel segno di una rivoluzione in  cui a prendere parola sono i bagliori di un inaddomesticato che la storia ha preteso di moderare, comprese le rappresentazioni mostruose e bestialmente inadatte al nostro rassicurante progresso antropocentrico.

Ragazza e Rose mostrano la traiettoria passionale con cui il corpo custodisce memoria di se stesso o la perde, rivelano che l’aver cura può essere indirizzato anche a creature piccole non proprie e che, dai recessi di una eredità inattesa, si può essere figlie che sanno utilizzare con saggezza o meno un sapere antico. A patto di non credersi sole, come non sono sole Ragazza e Rose – nel tremito della storia che le accoglie. Per questo, nella lotta per restare vive, sono libere. Non uguali ma di una somiglianza riconoscibile e commossa. Come quando si allarga il palmo di una mano appena sollevata e si aspetta l’altra che incede, per dire che sì, ti vedo.