L’Italia ha assunto l’impegno di fuoriuscire dal carbone entro il 2025. Ma tutto lascia presumere che il «phase-out» verrà perseguito spacciando per decarbonizzazione la sostituzione dei fossili più inquinanti con il metano.

Il gas è tutt’ora in cima ai piani strategici di Eni, che punta a sostenere il suo business con il sequestro del carbonio (Ccs): una tecnologia insicura, contraria al principio di precauzione, costosa sia in termini economici che di consumi, e sostanzialmente mai testata su scala industriale. Ma trova la complicità di Enel Italia – mentre Enel Group all’estero investe solo in rinnovabili! – perché il rischio dell’investimento in un grande impianto è coperto da sussidi pubblici e dagli oneri in bolletta garantiti dal capacity market. Senza contare il pressing lobbista svolto a Bruxelles per evitare una tassazione delle emissioni che metta fuori mercato il metano rispetto alle rinnovabili.

Pertanto, Enel intende riconvertire a metano anche l’impianto di Civitavecchia Torre Valdaliga nonostante i tempi di ammortamento e valorizzazione di impianti di questo genere superino i 30 anni e il loro funzionamento – oltretutto a costi sempre meno competitivi – ci porterebbero ben al di là del 2050, anno entro cui le emissioni devono essere azzerate.

Viceversa, un gruppo di ricercatori e tecnici di Civitavecchia ha messo a punto un progetto di massima che prevede la produzione di elettricità esclusivamente da fonti rinnovabili, stabilizzate nella loro intermittenza da stoccaggi di idrogeno verde prodotto sia con fotovoltaico, da installare su ampie aree dell’impianto da dismettere (in particolare i depositi di carbone) sia da un parco eolico di pale galleggianti, collocato a 20-30 chilometri dalla costa (senza impatto visivo diretto), collegate a riva con cavi sottomarini e integrate da idrolizzatori, per conservare con l’idrogeno, e rendere successivamente disponibile, l’eccesso di corrente elettrica prodotta.

Questa tecnologia off-shore flottante non ha avuto ancora applicazione in Italia (ma sono diversi i progetti in via di definizione); però Saipem, del gruppo Eni, è già stata coinvolta nella realizzazione di diversi impianti di grandi parchi eolici nel mare del Nord. Va aggiunto che il Prr prevede finanziamenti sostanziali per i progetti di sviluppo di rinnovabili, con una corsia preferenziale a sostegno dell’idrogeno «verde» prodotto con rinnovabili. Sole e vento, peraltro, a Civitavecchia presentano un bilancio tra i più favorevoli in Europa.

Questo progetto ha suscitato una discussione che ha coinvolto tutte le associazioni locali, i sindacati, gli studenti, il sindaco (eletto con una lista civica orientata a destra), parlamentari e le principali associazioni ambientaliste nazionali, la Cna e persino la diocesi, citando la Laudato Sì. Tutti hanno manifestato un forte interesse per il progetto e sono in programma diversi incontri (per lo più on-line) per farlo conoscere e per approfondirne gli aspetti tecnici, economici e occupazionali, mentre Enel ed Eni hanno aperto una vera e propria campagna di dissuasione delle forze in campo.

Ma è un fatto straordinario l’entrata in campo della Camera del Lavoro territoriale. Su proclamazione della Fiom locale e dei sindacati presenti in centrale, i lavoratori hanno già scioperato a più riprese su tutti i turni, impressionando una città spesso passiva (l’opposto di quanto avviene a Ravenna, dove il progetto Eni di un impianto Ccs sta trovando sostegno anche nei sindacati). Il 19 marzo, in concomitanza con le manifestazioni di Fridays for Future, si sono dati appuntamento tutti i soggetti attivi di Civitavecchia. Fiom Uilm e Usb hanno già indetto due scioperi di 2 ore per turno a sostegno del progetto. La sezione locale del Pd porterà un Odg all’assemblea nazionale, mentre procede una raccolta di firme e il coinvolgimento di amministratori e cittadini dell’«hinterland».

Che cosa possiamo ricavare da questa esperienza sommariamente riassunta?

È la prima volta che un settore consistente e significativo della classe operaia si mobilita in modo così esplicito a favore di un progetto di transizione energetica (ma sostanzialmente di conversione ecologica) invece di arroccarsi (come il più delle volte è accaduto) nella difesa di soluzioni di mera conservazione, inquinanti e incompatibili con una vera transizione.

La prospettiva aperta da questo progetto nasce sia dalla indilazionabilità della crisi climatica, sia dalla sua credibilità tecnica e occupazionale (il progetto fornirebbe un moltiplicatore di occupazione qualificata e anche il calcolo economico sembra favorevole, grazie ai fondi Next Generation Eu e alla reindustrializzazione ad alta specializzazione incentivata in loco), sia, soprattutto, sulla mobilitazione delle forze sociali cittadine che sembra riproporre quel progetto, poi abbandonato, che alcuni anni fa veniva chiamato «coalizione sociale».

Che questa aggregazione di forze, adeguatamente sostenuta e rinvigorita da adeguati processi di diffusione e formazione, può innescare una sua replicazione a livello nazionale e – perché no? – internazionale in altre situazioni ove il problema della riconversione produttiva si pone con assoluta urgenza, qualificandosi di fronte alla direzione aziendale come la vera controparte sia della riconversione che della futura gestione dell’impresa, in una progressiva erosione dei poteri del management tesa a qualificare l’attività in discussione (tanto più trattandosi di energia) come «bene comune».

Si tratta comunque di un processo conflittuale che non può restare confinato, pena la sua sconfitta, in un ambito prettamente aziendale, e il cui esito, sempre provvisorio nell’orizzonte temporale a cui possiamo guardare, è ogni volta ridefinito dalle forze che si riesce a mettere in campo in un processo partecipativo.