La mobilitazione a Civitavecchia per una transizione da un impianto di termogenerazione a carbone, che deve comunque essere dismesso, a un impianto interamente alimentato da fonti rinnovabili – generatori eolici flottanti ancorati a diversi chilometri dalla costa, è nota a molti.

La mobilitazione – ha preso le mosse dall’iniziativa di un ristretto gruppo di dipendenti, con l’assistenza di alcuni tecnici, ed è andata consolidandosi mano a mano che intorno a questo progetto andava raccogliendosi una serie di forze prima cittadine, poi anche nazionali. Innanzitutto, la Fiom, la Uilm e alcuni sindacati di base presenti nell’impianto, che hanno dichiarato con successo due scioperi per rivendicare la realizzazione del progetto. Poi diversi comitati e associazioni, sia cittadine che esterne (tra queste l’associazione Laudato sì) poi parrocchie, diocesi, amministrazione comunale, imprenditoria locale, assessorato regionale all’ambiente, che hanno dato vita o partecipato a diversi convegni e manifestazioni cittadine a sostegno del progetto; che ha già trovato progettisti e finanziatori pronti a realizzarlo.

Di fronte questa mobilitazione ha però il muro di Enel, titolare dell’impianto ed Eni, che puntano entrambe alla sostituzione dell’impianto a carbone con uno a metano. Perché la “transizione energetica” per questi gruppi, e per il ministro Cingolani, si può fare solo “a metà”: cioè con il metano. Il paese non sarebbe ancora pronto per una transizione totale alle fonti rinnovabili, anche se il pianeta ne ha un bisogno urgente. Ma la ragione vera è che l’impianto a metano, di cui l’Italia è già piena ben oltre il suo fabbisogno, può fruire delle sovvenzioni legate al capacity market, che paga la disponibilità a fornire energia in caso di temporanea carenza sulla rete. Sovvenzioni che Terna concede volentieri, invece di puntare a supplire alle intermittenze delle fonti rinnovabili con altri mezzi di accumulo, come le batterie, l’idrogeno o i pompaggi (riempimento dei bacini montani in periodi di eccesso di produzione per utilizzarli nei periodi di carenza) di cui il paese ha ampia disponibilità.

Innanzitutto, si tratta di una lotta “dal basso”, di lavoratori e cittadinanza, il cui orizzonte è una transizione energetica integrale, sulla base di un progetto elaborato da chi l’ha messa in moto: un disegno che non ha aspettato che il governo facesse le sue scelte, peraltro contrarie a quello che lo stato del paese e del pianeta richiede.

In secondo luogo, questa iniziativa ha puntato a coinvolgere fin da subito il maggior numero possibile di attori – maestranze, tecnici, scienziati, sindacati, associazioni, parrocchie, imprenditoria locale, progettisti – e ci è riuscita. Insieme questi due elementi concorrono a gettare le basi di una autentica conversione ecologica, cioè di un processo che non si limita agli aspetti tecnici ed economici della transizione, ma ne investe le basi sociali e culturali. E’ un processo in cui non contano solo gli obiettivi e i risultati, ma anche e soprattutto gli attori: la loro iniziativa e la loro partecipazione. Per molti di questi attori non si tratta infatti solo di un’adesione agli obiettivi del progetto, ma di un vero e proprio coinvolgimento, che ne fa una comunità in fieri.

E’ una caratteristica fondamentale che ritroviamo nella lotta, anch’essa esemplare, degli operai della Gkn di Firenze contro il loro licenziamento e la delocalizzazione della loro fabbrica. Quel coinvolgimento, massiccio e convinto, ha indotto il comitato di fabbrica ad aprirsi alla prospettiva di una riconversione integrale non solo del loro impianto, ma di tutta la filiera, andando anche al di là della devastante prospettiva della conversione a una motorizzazione elettrica di massa. Per Civitavecchia il programma è chiaro: si sa che cosa produrre e come. Per la Gk è ancora tutto da inventare.

Inoltre, indipendentemente dai risultati immediati che può avere quel conflitto e dagli alti e bassi che può avere la mobilitazione, si consolida una aggregazione sociale che non è solo una realtà diversa dalla somma delle sue componenti, ma che in qualche modo prefigura una struttura di gestione condivisa dell’impianto e della filiera, alternativa a una dimensione puramente aziendale, perché coinvolge tutto il territorio dove la voce della comunità che lo abita può avere un peso decisivo. Si tratta comunque di una gestione conflittuale che genera una trasformazione in corso sia delle strutture che dei suoi attori: la vera essenza, come si è detto, della conversione ecologica.

In qualche modo questo processo dà corpo al progetto di quella “coalizione sociale” lanciato anni fa da Landini e poi lasciato cadere, che oggi in parte si ripresenta con la formula del sindacato di comunità, a cui le lotte esemplari di questa fase stanno in qualche modo dando concretezza.