Oggetto di uno studio storico può essere qualsiasi aspetto di una cultura, di una società, di un territorio. Ma come leggere la storia di un territorio quando quest’ultimo è rappresentato da un mare? Secondo Fernand Braudel, è necessario sondare i diversi tempi economici, sociali e politici «insiti» nel mare in quanto territorio e oggetto di lettura storica: ogni mare, cioè, è una «pianura liquida» in cui rintracciamo nel tempo le rotte, i flussi, le relazioni tra sponde, il traffico delle merci, le migrazioni, lo sfruttamento delle risorse, la pesca, il controllo politico, strategico e militare, la sovranità, la lotta per l’egemonia. Da un punto di vista filosofico e sociale, Deleuze e Guattari, in Mille piani, avevano poi definito il mare come «lo spazio liscio principale, il modello idraulico per eccellenza», il primo «spazio liscio» a venire ‘striato’ e controllato.
A tutti questi processi non è sfuggito il Mediterraneo, dove si sono costruiti i miti e la storia dei Greci e dei Romani. All’interno di esso c’è un altro mare che – per citare ancora Braudel – «da solo e per analogia, pone tutti i problemi impliciti nello studio dell’intero Mediterraneo»: l’Adriatico, al quale è ora dedicato un esauriente saggio di Egidio Ivetic, Storia dell’Adriatico Un mare e la sua civiltà (il Mulino «Biblioteca storica», pp. 434, € 32,00). L’analisi di Ivetic segue un rigoroso ordine cronologico per sondare quei «tre livelli» che – scrive – «sono ovunque dentro e attorno a un mare»: «l’elemento liquido, la costa, i territori gravitanti». Si parte dall’antichità e dalla tarda antichità per attraversare poi il Medioevo e l’età dei Comuni, fino al periodo rinascimentale quando la regina comincia a essere Venezia, sempre più «parte vitale dell’Adriatico», anzi quest’ultimo appare davvero «inconcepibile senza Venezia», la quale vi esercita un sicuro dominio incontrastato (come ribadì anche fra Paolo Sarpi nel trattato Il dominio del mare Adriatico, pubblicato nel 1619). Questa supremazia verrà interrotta soltanto nel 1797 quando, con il Trattato di Campoformio, Napoleone cede Venezia agli austriaci.
Si apre così un nuovo predominio: proprio dalla fine del Settecento, infatti, si registra un avanzamento «delle istituzioni politiche e delle strutture asburgiche, centroeuropee verso l’Adriatico» (la via commerciale Trieste-Lubiana-Vienna fu inaugurata nel 1780 e il tragitto era percorribile in una settimana). Nel corso dell’Ottocento, poi, un’importante porzione del territorio adriatico, la Dalmazia, diviene una vera e propria porta d’Oriente: «oltre la Dalmazia iniziava un mondo orientale che aveva i suoi tempi storici differenti». Come osserva Ivetic, «il contrasto tra la costa e l’interno non aveva eguali nell’Europa e nel Mediterraneo dell’Ottocento». Eppure, anche in tempi più recenti, l’Adriatico ha conosciuto un netto e serrato contrasto: quello fra l’Italia, con la sua sponda adriatica, soprattutto romagnola, investita negli anni sessanta e settanta del Novecento dall’industrializzazione e dal turismo e l’Albania comunista, guidata dal regime di Enver Hoxha. Fino ad arrivare agli anni novanta, «un pessimo decennio per l’Adriatico», quando i cacciabombardieri, di ritorno dai combattimenti in Bosnia, vi scaricavano i missili inesplosi. Del resto, una profonda dicotomia ha caratterizzato l’Adriatico fin dai tempi antichi. C’era quello occidentale e quello orientale: il primo, più sabbioso, il secondo di difficile e impervia navigazione. Eppure, in mezzo a differenze e contrasti, sono stati diversi anche i tratti unificanti: in quello che i Greci chiamavano Adriatike thalassa (da Adria, una piccola città sullo Ionio) e i Romani Adriaticum mare o Mare Superum (opposto al Tirreno, Mare Inferum) si era creata una vera e propria koinè, una continuità e una interdipendenza, segnate anche da profonde divergenze. Ad esempio, Pola e la costa istriana erano quasi un prolungamento di Roma stessa, vista l’alta presenza di villae di famiglie senatoriali, e un importante elemento di continuità e unione è stata poi la figura dell’imperatore Diocleziano, vero e proprio homo adriaticus.
Un fenomeno che ha accomunato l’Adriatico (dove operavano soprattutto gli uscocchi) al Tirreno e a tutto il Mediterraneo è stata la costante presenza di corsari e pirati. Proprio ai corsari è dedicato un altro interessante studio «marittimo», a opera di Salvatore Bono: Guerre corsare nel Mediterraneo Una storia di incursioni, arrembaggi, razzie (il Mulino «Biblioteca storica», pp. 303, € 24,00). Il volume di Bono si concentra soprattutto sui corsari: è buona norma, infatti, distinguere fra pirati e corsari. Se i primi svolgevano la loro attività in forma del tutto autonoma e a proprio esclusivo profitto, senza rispettare regole e restrizioni imposte da altri, i secondi, invece, erano autorizzati ad attaccare le loro vittime da governi e istituzioni dello Stato al quale appartenevano. I secoli passati in rassegna dalla lente dello studioso sono soprattutto il Cinque, il Sei e il Settecento, quando si infittiscono le guerre corsare nel Mediterraneo. I principali corsari, in questo periodo, erano i maghrebini, i cosiddetti barbareschi, che spandevano intorno a loro un vero e proprio alone di terrore. Le popolazioni delle coste, al grido di «Mamma li turchi!» si rifugiavano sulle alture mentre gli equipaggi delle navi abbordate si affrettavano ad arrendersi. Per contrastarli, da parte europea, vennero rilasciate diverse «patenti di corsa» a due ordini di cavalieri, quelli di Malta e quelli di Santo Stefano; essi avevano il potere di rilasciare ulteriori «patenti» a corsari laici non appartenenti agli ordini. Grazie allo scrutinio di numerose fonti, Bono offre un significativo spaccato su molti aspetti della cultura e del costume dei periodi presi in esame: ad esempio i vari tipi di imbarcazioni in uso all’epoca; come funzionava una galera (la nave sulla quale remavano i galeotti); i costumi delle guerre corsare, i principali porti, le torri di avvistamento e i loro svariati usi. Uno dei principali porti italiani dove stazionavano i corsari, fra Sette e Ottocento, è Livorno, porto franco e connotato dalle leggi «livornine». Non a caso Edmond Dantès, il protagonista del Conte di Montecristo di Alexandre Dumas, dopo la rocambolesca fuga dal Castello d’If, verrà salvato da un’imbarcazione di pirati e verrà condotto proprio a Livorno.
Una sezione intrigante del saggio è poi dedicata alle figure del corsaro e del pirata nell’immaginario collettivo, a partire dall’Ottocento. Un’ammirazione di tipo romantico cominciò a rivolgersi soprattutto verso i corsari dell’Atlantico, visti come uomini liberi e coraggiosi: basti ricordare il poemetto di lord Byron dal titolo The Corsair. Ma anche molti anni dopo, per uno studioso contemporaneo come Michel Foucault, all’interno di una riflessione dalle tonalità poetiche, il corsaro diventa simbolo di bellezza e di libertà: nelle civiltà senza navi – dice Foucault in un suo studio sugli «spazi altri» – «i sogni si inaridiscono, lo spionaggio si sostituisce all’avventura e lo squallore della polizia prende il posto dell’assolata bellezza dei corsari».