«Per me non si può più definire il mondo attraverso le nazioni, con confini o lingue, ma attraverso i 7,6 miliardi di esseri umani che vivono su un unico e limitato pianeta. Mentre cerchiamo di sopperire ai bisogni sempre maggiori di una civiltà in espansione, stiamo modificando enormemente la Terra. In virtù del nuovo e potente ruolo che svolgiamo sul pianeta, saremmo anche capaci di architettare la nostra stessa rovina. Dobbiamo imparare da subito a pensare alle conseguenze a lungo termine di quello che stiamo facendo» afferma Edward Burtynsky, accompagnando con queste parole le sue fotografie a colori (tra cui quella della serie Water scattata in Arizona nel 2011) esposte nella mostra Civilization che, curata da William A. Ewing e Holly Roussell con Justine Chapalay, si arricchisce per l’edizione italiana del sottotitolo Vivere, Sopravvivere, Buon Vivere. Una scelta in linea con la XIII edizione del Festival del Buon Vivere di Forlì nel cui ambito viene presentata. Co-prodotta dalla Foundation for the Exhibition of Photography e dal National Museum of Modern and Contemporary Art of Korea di Seoul con la Fondazione Cassa dei Risparmi di Forlì, la mostra è partita da Seoul nel 2018 per giungere a Pechino, Auckland, Melbourne e Marsiglia.

Nella città romagnola (unica tappa italiana) la collettiva è allestita negli spazi dei Musei di San Domenico (fino all’8 gennaio 2023) e vede la collaborazione curatoriale di Walter Guadagnini, Monica Fantini e Fabio Lazzari. Un maestoso «affresco planetario» il cui leitmotiv è lo sforzo nell’estenuante negoziazione costi/benefici di cui lo stesso William Ewing evidenzia come elemento chiave l’«economia delle relazioni». Ma se «la civiltà è collettività» è altrettanto vero che bisogna fare i conti con un’ambiguità di fondo insita nelle sfumature interpretative dei termini «civiltà» (dal latino civilis), espressione del valore della società e «civilizzazione» associata ad un’idea di progresso. La formalizzazione di questi concetti è anche l’introduzione alla mostra attraverso immagini in un certo senso speculari, come l’altare di Pergamo nella sala affollata del Pergamonmuseum di Berlino, nella foto a colori di Thomas Struth e la veduta in bianco e nero di Richard de Tscharner con la strada asfaltata in primo piano, nel deserto sudanese, accanto ai cavi elettrici e lungo la linea dell’orizzonte le piramidi di Meroe fatte erigere dai faraoni Kushiti.

Tra interconnessioni e sottotesti che alludono alla globalizzazione (e alle varianti del suo impatto sull’umanità), l’incontro di sguardi di 300 fotografe e fotografi internazionali è testimone, attraverso 130 opere, della condivisione di un bene comune in cui è fondamentale il riconoscersi nelle differenze. L’osservatore, quindi, è accompagnato in questo viaggio in un tempo presente che è sempre in bilico tra conoscenza e consapevolezza, inquietudine e speranza. Un viaggio che in Civilization non è soltanto geografico. È un attraversamento dei linguaggi stessi della fotografia con approcci, tecniche e narrative diverse, da Lee Friedlander a Richard Mosse, da Alec Soth a Olivo Barbieri, da Irene Kung a Paolo Woods e Gabriele Galimberti e ancora Wang Qingsong, Michael Wolf, Robert Walker, Walter Niedermayr, Mandy Barker, Chris Jordan, Mark Power, Philippe Chancel, Penelope Umbrico, Luca Zanier, Mitch Epstein, Pieter Hugo, Katy Grannan, Cássio Vasconcellos, Lauren Greenfield, Pablo López Luz, Noh Suntag… Autori che sono stati coinvolti direttamente dai curatori nella costruzione di quello che appare come un «organismo» mutevole: perciò niente archivi storici ma l’esplorazione di una contemporaneità conflittuale che procede cronologicamente dall’epocale crollo del Muro di Berlino.

Nelle otto sezioni vengono affrontati i temi dell’architettura delle megalopoli («alveare»), del movimento umano («flusso»), delle relazioni virtuali («soli insieme»), della manipolazione mentale («persuasione»), dell’esercizio del potere («controllo»), dei paradossi dell’industria del divertimento («fuga») e, infine, dei fenomeni di disgregazione sociale («rottura»), prima della conclusione che avanza verso il futuro («e poi…»). In particolare, la sezione «rottura» si sofferma su storie recenti (al momento tutt’altro che metabolizzate) presentando un nucleo inedito di opere, come Pandemic Postcards di Nicola Bertasi sulle fragilità della pandemia di Covid-19 e, tra le foto della guerra in Ucraina, lo scatto di Paolo Pellegrin Il funerale di Anton Rodovenchyk, un soldato Ucraino di 18 anni ucciso vicino a Zhytomiryr, Babyn Villagen, Ucraina 2022. Se un alone di solitudine circonda le immagini avveniristiche di Michael Najjar (dal razzo partito dalla base spaziale della Guinea francese al più grande radiotelescopio del mondo), non meno di quelle degli aeroporti di Jeffrey Milstein o delle visioni dall’alto di Gerco de Ruijter, nonché la scheda per la programmazione dei generatori della Centrale Idroelettrica di Picote di Edgar Martins, la quantità e la massa di cose e persone (statiche o in movimento) diventano segni grafici e superfici dense di presenze cromatiche nelle fotografie di grande impatto con i libri nell’antica biblioteca dell’Abbazia di Sankt Florian di Candida Höfer, nelle insegne al neon nelle notti di Tokyo e Osaka di Sato Shintaro o nel momento della preghiera colto da Ahmad Zamroni in una moschea di Jakarta durante il Ramadan. Mentre Massimo Vitali sintetizza cinematograficamente una giornata nel mercato settimanale di Ceagesp a São Paulo e Carlo Valsecchi è alla ricerca del non visibile, nel tentativo di fermare il «fenomeno» anche nel profilo di un’attrezzatura per technogym.

Alejandro Cartagena racconta l’impatto fisico e psicologico della presenza del «muro della vergogna» lungo il confine Messico-Stati Uniti e Samuel Gratacap inquadra la perquisizione in un appartamento di Tripoli da parte della polizia anti-immigrazione illegale. Il fallimento dei sistemi politici e dell’intera civiltà, tra disastri ambientali, conflitti e migrazioni è sancito da una fotografia in particolare, il potentissimo scatto in bianco e nero In The same boat che inquadra un gommone sovraffollato salpato dalla Libia con il suo carico umano. Un’immagine che per Francesco Zizola segna anche il punto di non ritorno dal reportage ad una fotografia più di ricerca. Per circa tre settimane, nell’agosto 2015 (la foto è stata scattata il 26), il fotografo è rimasto sulla nave Bourbon Argos di Medici Senza Frontiere: «Settimane lunghissime di estrema calma e anche momenti molto difficili, in cui fui testimone del tentativo di salvare esseri umani. Ne vidi morire molti. Furono momenti molto drammatici. In quei viaggi, avanti e indietro tra il canale di Sicilia, in prossimità delle coste libiche e diversi porti italiani dove riuscimmo a sbarcare, vidi però anche salvare circa tremila persone. Storie che ho voluto raccontare con il linguaggio tradizionale, nella cui narrazione mi sentivo più sicuro, ma cercando anche di far partecipare emotivamente, attraverso il video, il mio pubblico ideale, ovvero il fruitore dei media in occidente, perché si potesse conoscere il dramma di quegli esseri umani alla ricerca di un futuro migliore.